Renato Frigerio14 marzo non è una data del calendario che potrà facilmente scivolarmi via dalla mente dopo che l’accenno sussurrato circa un evento cui non volevo prestare fede, ebbe una straziante conferma già nelle ore del giorno seguente. Più che un colpo al cuore, lo posso ora identificare ad un trauma che toglie il respiro quello che mi colse quando fu giocoforza accettare la verità su ciò che era accaduto all’amico più caro e apprezzato.
Marco Anghileri era precipitato sul versante Sud del Monte Bianco quando le sue mani si erano appigliate al granito sulla parete verso la cuspide della “Chandelle” per raggiungere il cornicione terminale del favoloso obiettivo di cui ormai sentiva di aver avuto ragione.
Mi sembra di immaginare il suo volto soddisfatto e sorridente nel momento che precede di poco quel terribile volo disperato.
Lo stesso sorriso compiaciuto che gli deve essere brillato non so quando si affacciò da Entrèves e da Courmayeur, o forse meglio dalla Val Veny o dai campi di sci del Chècrouit, e vide, tra le frastagliate e spettacolari creste del Peutèrey e dell’Innominata, lo scenario dei Piloni del Freney. Fu allora che certamente si ricordò che sul celebre Pilone Centrale, che adesso si distingueva nettamente, tra il 10 e il 12 agosto del 1982, i tre alpinisti elvetici Michel Piola, Pierre-Alain Steiner e Jori Bardill avevano aperto una via diretta memorabile, con una scalata di concezione moderna e sportiva.
Su quel Pilone si erano succedute nel tempo conquiste e tragedie, ma una salita solitaria, se è sempre un’impresa di valore superiore sui Piloni del versante del Freney, diventa un problema che ben pochi alpinisti si possono concedere, soprattutto se affrontato nel periodo invernale. Era un’occasione che Marco non poteva permettersi di lasciarsela sfuggire. L’idea nacque forse all’improvviso, ma divenne presto stimolante e irresistibile, tanto che la teneva gelosamente dentro di sé, fino alla soglia della sospirata partenza.
Che potesse essere una decisione rischiosa per lui, non poteva venire presa in considerazione da nessuno di coloro che ne conoscevano l’accurata preparazione che precedeva ogni suo progetto e la scrupolosa prudenza con cui lo affrontava.
Ma è appunto l’imprevedibile che può diventare fatale: e una disgrazia inimmaginabile lasciò ammutoliti ed esterrefatti tutti quanti lo conoscevano a puntino e gli volevano un mare di bene. A soffrire insieme a tutti questi suoi amici includo anche me stesso, che, nonostante la differenza generazionale, con Marco condividevo un’amicizia quasi fraterna. Frequentando insieme le consuete riunioni nella sede dei Gamma, prolungavamo spesso fino a tarda sera le nostre animate chiacchierate, che avevano come oggetto sia il racconto di molte sue avventure e conquiste di montagna, sia le tante storie che gli riferivo sui tanti alpinisti che non aveva potuto conoscere, specialmente se riferite alle imprese dei nostri concittadini. La sede era comunque da lui frequentata con senso di responsabilità anche per offrire interessanti proposte programmatiche e la relativa disponibilità per la loro attuazione.
Otto anni sono volati via da quel tragico venerdì 14 marzo, ma per me è sempre un tormento ogni volta che mi vedo davanti agli occhi l’immagine di quel ragazzo di appena 41 anni, i 42 li avrebbe compiuti il 16 settembre del 2014.
Quanto tempo gli sarebbe rimasto per salire nuovi gradini della “Scala dei sogni” che porta sulle pareti e sulle vette solo i più audaci? Chi gli è stato a lungo insieme ha avuto la fortuna di conoscere una persona di ampia apertura mentale, dotato di lealtà, sincerità, gentilezza e di una simpatia innata. Con queste qualità e con il prorompente entusiasmo che gli brillava sul volto è riuscito a far accettare la sua superiorità e le sue eccezionali doti alpinistiche senza crearsi attorno quel solito cerchio di invidia e di gelosia che di normale abitudine si riscontra in questi casi.
La sua scomparsa si è ripercossa non solo sentimentalmente in ambito personale, a partire ovviamente dai suoi familiari, ma ha privato il gruppo Gamma e la stessa città di Lecco di un alpinista che ancora stava sorreggendo la continuità di quella tradizione di cui ci sentiamo orgogliosi.
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