Nadia si è paralizzata!. Il lato sinistro, braccio e gamba, non rispondono più!.
Contattai il professor Fantoni, e quasi lo maltrattai:
Bisogna tentare qualcosa: è atroce lasciarla morire così!.
<<Non fare il bambino, Ruggeri! Sai bene che avremmo fatto l’impossibile, se ci fosse stata una speranza!...>>.
Mai rimpiansi tanto di non essermi specializzato in quel particolare settore. Come medico, mi rendevo conto dell’illogicità del mio recriminare, pure mi pareva che avrei superato me stesso, pur di salvarla… Lessi trattati e trattati alla ricerca di uno spiraglio, di qualcosa che potesse , se non altro, allungarle la vita, ma non trovai nulla a sostegno delle mie patetiche illusioni.
Non mangiava quasi più, e le forze le vennero presto a mancare. I dolori al capo la prostravano in maniera indicibile, ma per non allarmare la madre, già sufficientemente angosciata, li sopportava stoicamente.
Una sera, d’un tratto, ebbe la prima di quelle terribili crisi. Pat stava raccontandole di un’amica che aveva partorito il suo primo figlio, quando cominciò a tremare, e allorché si riprese mi fissò con uno sguardo, nel quale lessi la scoperta: quella della verità che da tempo doveva essersi insinuata nella sua mente!
<<Quanto mi resta, Roberto?...>>, mormorò.
<<Non comprendo a cosa tu stia alludendo…>>.
<<Sì, che capisci! Ma ciò che vorrei sapere … è se la mamma ne è al corrente>>.
Avevo un nodo in gola: avrei dato qualunque cosa per non vederla così consapevole, e straziante!
<<Hai una fantasia troppo fervida, cara…>>.
<<Anche tu, se hai potuto credere che una persona nelle mie condizioni…>>.
<<Ma, Nadia, te l’avevo pur detto che non sarebbe stata una passeggiata…>>.
<<Sono più penose le vostre bugie…>>, rispose.
Sentii di doverle delle spiegazioni per quanto era avvenuto. La colpa era mia, che non l’avevo preparata!:
<<Quando vengono colpiti determinati centri nervosi, vedi, le conseguenze non si possono prevedere. Comunque il “Parkisonismo encefalitico” costituisce un’evenienza affatto rara, essendo la conseguenza del male che l’ha generato>>.
Rimase qualche istante perplessa. <<In ogni caso… Desidero essere ricoverata, Roby>>, dichiarò. <<Sono crisi orrende. La mamma non deve assistervi!...>>.
<<Per motivi diversi, te ne volevo parlare. Il tuo stato di deperimento è preoccupante e la debolezza non giova certo ai malati… In ambiente ospedaliero ti praticherebbero delle ipodermoclisi, usufruiresti di un’assistenza costante, le tue reazioni ai farmaci verrebbero assiduamente controllate…>>.
Ora potevo vederla più spesso. Salivo da lei ad ogni pausa; sia pure per pochi istanti. Il mio reparto era al primo piano, il suo all’ultimo, e gli ascensori costantemente occupati. Quanti scalini, in quei giorni, con mezzo panino rimediato alla mensa: senza fame, stanchezza, senza più sensazioni!
Le avevano aumentate le dosi di analgesico: soffriva meno, e con il filo di voce che le era rimasto, mi parlava a lungo della sua infanzia, di quelli che erano stati i suoi sogni, le sue delusioni… di tutto. Ne parlava col distacco di chi è già molto lontano; non dagli eventi soltanto, come diceva il nonno: dalla vita! Mi raccontava della sua solitudine, dell’impossibilità a comunicare con le persone più care, del conforto che solo la fede e le buone letture le avevano arrecato, ed io rivivevo. Ritrovavo le mie contraddizioni, gli slanci, le lotte, i ripensamenti, gli errori…
Mi derivava un gran bene da quelle visite, ma anche un gran male: per la prima volta qualcuno mi capiva. Ma quel qualcuno l’avrei perduto e non sarebbe rimasto che il rimpianto!
Quando mi guardava con gli occhi immensi nel volto scavato, quando mi stringeva la mano, come per attingere forza dalla mia vita, io sentivo che avrei dato volentieri quella che in me pulsava, in cambio della sua.. Ogni sera, lasciandola, la baciavo in fronte, e lei si sollevava sui cuscini, per ricevere il mio bacio.
<<Le hai parlato del nostro fallito rapporto?... >>, mi chiese, un giorno, Pat.
<<Certo che no! Perché?... >>.
<<Non so dirti; è come… come se sapesse… >>.
<<C’è sempre un momento in cui, quando sono condannate…>>, soggiunse, <<alle persone care si auspica la morte. Il nostro egoismo, no, vorrebbe trattenerle, ma non si può più sopportare di vederle consumarsi. Capisci cosa intendo, Roberto?...>>.
<<Io non mi arrendo alla morte, se non dopo, la morte!>>.
Di lì a poche ore mi telefonarono che aveva la febbre alta.
<<Com’è successo?>>, chiesi, incrociando il primario.
<<Complicazioni polmonari. In queste condizioni può entrare in coma da un momento all’altro>>.
Aveva la fronte madida e il respiro affannoso, ma volse il capo quando entrai, e mi salutò con gli occhi.
<<Non stancatela!>>, disse l’infermiera. <<Le ho praticato un’iniezione, dovrebbe riposare>>.
Patrizia le teneva una mano. Io le presi l’altra.
<<Roberto…>>, sussurrò: <<E’ sera?... >>.
<<Sì, cara>>.
<<Hai mangiato?>>.
<<Certo. Tu, piuttosto, come stai?... >>.
<<Ne ho combinata un’altra… un’altra delle mie >>.
Faticava a parlare, le veniva la tosse.
Entrò sua madre: gli occhi arrossati, e anche a lei, debolmente, sorrise.
Quindi, come aveva previsto l’infermiera, si assopì. Ci scambiavamo occhiate eloquenti, ma non osavamo parlare, per timore di destarla. Il petto le si alzava ed abbassava rapidamente: aveva, ad ogni istante, un sussulto.
<< Mamma! >>, chiamò ad un tratto. Le venne accanto.
<< Ho un gran caldo…>>.
<< E’ la febbre, cara…!>>.
<< Che ore sono? >>.
<< Quasi mezzanotte >>.
<< Roberto, devi andare… Domani occorre che ti alzi presto! >>.
<< A me bastano poche ore, come a Napoleone, lo sai, e sono di nuovo in forma>>.
<< Non si tratta solo di te. Dovrai operare…; bisogna che riposi! >>.
<< Tra poco vado >>.
<< Ora! >>, insistette. << Sono molto stanca ed io… dormirò più quieta >>.
<< Ha ragione, Roberto; vai! >>, intervenne Patrizia. << Ti terremo informato. Del resto… sarai qui tra poco >>.
<<Mi volete cacciare; ho capito >> .
<< Siete tutti così premurosi…>>, Nadia bisbigliò. << Troppi, sacrifici! Troppi! >>.
Era commossa e negli occhi aveva un luccichio, che non era solo di febbre.
D’improvviso trattenne la mano di Patrizia, che le stava asciugando il sudore, e la portò sulla mia:
<< Vi ho rubato tanto tempo… e non sono stata una compagnia allegra, per giunta>>.
<< No di certo >>, risposi, << se ti ostini a fare simili discorsi >>.
<< Non dorme?>>, chiese l’infermiera, affacciandosi. << Eppure, dottor Ruggeri, lei dovrebbe saperlo che non si affliggono gli ammalati >>.
<< Anche questa ci si mette! >>, imprecai. << Non mi resta che sparire >>.
Si puntellò sui cuscini con sforzo estremo per ricambiare il mio bacio:
<< Ciao, Roberto. Non darti pensiero: sto meglio! >>.
Fuori, il freddo mi attanagliò lo stomaco e il petto. Sollevai il bavero e vi immersi il volto. Desolato. Era la fine! Avrei assistito impotente allo spegnersi di una fiammella, che nessuna risorsa terrena avrebbe più potuto alimentare. “ Non andartene!”, avrei voluto urlarle. “Non ancora, Nadia!”.
Mi buttai sul letto così, senza spogliarmi, ma mi alzai dopo un istante. Non potevo prendere sonno e nemmeno restarmene inerte. Fumai una sigaretta dopo l’altra, bevvi non so quanti caffè, lo sguardo calamitato dal telefono.
E d’un tratto, squillò.
Lo lasciai suonare a lungo, poi, senza rispondere, uscii.
Era quasi bella nella sua serenità. Le avevano sciolto i capelli, e non l’avevo mai vista, così.
Gli occhi mi bruciavano, tanto erano aridi. Ci sono dolori per i quali anche un uomo può piangere, e Dio sa se l’avrei desiderato. Ma non tutti hanno questo conforto…
<< Non se ne è accorta >>, mi disse Patrizia. << Dormiva… >>.
<<Avrei dovuto rimanere!...>>, recriminai.
<<Non avresti potuto far nulla, Roberto. Tu… tu le hai dato già molto: tre mesi interi. Felici!>>.
La guardai, stranito.
<<Indovino, cosa pensi… Non sospettavi che Nadia ti amasse!...>>.
Il cuore mi diede un balzo.
<<Io, invece, l’avevo capito da tanto. Ultimamente ti attendeva con una trepidazione… Non le importava che ogni attimo trascorso le abbreviasse la vita. Voleva che il tempo scorresse il più veloce possibile, per rivederti!>>.
Si asciugò una lacrima, e riprese: <<C’è un’altra cosa che sento il dovere di rivelarti:
le lettere, quelle lettere che ti hanno tanto commosso, è stata Nadia, a scrivertele, non io! Lei, contrariamente a me, era una “buona penna”. E ho insistito anche perché… m’illudevo lo scoprissi….>>.
Non avevo riconosciuto Pat , in quelle righe, ma Nadia; sì!: la sua anima delicata, il suo amore stupendo… Perduti per sempre!
<<Non so se tu le abbia ancora… >>, azzardò. <<Me lo auguro>>.
<<Le ho conservate, grazie al Cielo>>, mormorai. <<Ti ringrazio!>>.
Più tardi, camminando senza meta nella via solitaria, mi dissi che nulla poteva avere più importanza. Poi pensai alle lettere e, quasi senza avvedermene, mi ritrovai sulla soglia di casa.
Qualcosa mi rimaneva, di lei! Qualcosa che, col suo ricordo intatto, avrebbe riempito la mia esistenza!
Si tù no vives,
si
tù, querida, amor mio,
si tù
te as muerto,
todas las hojas caeràn en mi pecho,
lloverà sobre mi alma noche y dia,
la nieve quemarà mi corazòn,
andaré com frio y fuego y muerte y nieve,
mi pies querràn marchar hacia donde tù duermes,
pero
seguiré vivo,
porque tù me quisiste sobre todas las cosas
imdomable,
y, amor, porque tù sabes que soy no sòlo un hombre
sino todos los hombres.
Neruda
Se tu non vivi,
se
tu amata, amor mio,
se tu
sei morta,
tutte le foglie cadranno sul mio petto,
pioverà sulla mia anima notte e giorno,
la neve brucerà il mio cuore,
camminerò con freddo e fuoco e morte e neve,
i miei piedi vorranno andare dove tu dormi,
ma,
continuerò a vivere,
perché tu m’hai voluto sopra tutte le cose
indomito,
e, amore, perché tu sai che sono non solo un uomo
ma tutti gli uomini.
F I N E
Nessun commento:
Posta un commento