L’eccesso di whisky mi consentì un sonno profondo, ma agitato.
Stranamente, dopo tanto tempo, rifeci il mio sogno di ragazzo. Questa volta però non era più mio padre a parlare, ma il nonno. Portava una gerla colma di fieno sulle spalle, e fumava la sua inseparabile pipa.
“Come ho potuto rimanermene lontano tanti anni, senza recarmi a trovarlo?”, mi chiedevo. Ma lui non era, inquieto. Sorrideva, esortandomi a raccontargli ogni evento occorsomi, buono o gramo che fosse. Poco a poco, mentre ripercorrevo un ben noto cammino, con stupore mi avvedevo che fatti e circostanze mi apparivano in una luce diversa. Filtrata dal tempo, ogni cosa acquistava una diversa dimensione e importanza.
<<Capisci?>>, diceva il nonno, <<ora che non sei più protagonista, che ti osservi agire, puoi essere più obiettivo, ed anche più indulgente. Vedi, Roberto, dovremmo vivere la nostra esistenza proiettandola nel futuro, immaginando le reazioni che avremo, in futuro. Io sono morto, Roby, e razionalmente tu sai benissimo che lo sono, ma il tuo inconscio non è ancora riuscito ad accettarlo. Per questo preferisci sognare di avermi dimenticato!... Cerca di ricordarlo, mio caro: impara ad accettare le prove che la vita ti riserverà, con la consapevolezza che ognuna è necessaria alla tua formazione di uomo responsabile e maturo!>>.
La mattina mi destai frastornato, ma non avevo il tempo di riordinare le idee: dovevo sbrigarmi ad alzarmi, per andare al lavoro.
La prima cosa che vidi nell’afferrare la sveglia, fu il ritratto di Patrizia. Macchinalmente l’afferrai e lo nascosi nel cassetto. Ciabattai fino al bagno: mi ci voleva proprio una bella doccia! Ma furono imprecazioni turche, perché l’acqua era gelata. Mentre armeggiavo per approntarmi un caffè di fortuna e m’ero già scottato due volte, mi apparve il pupazzetto portafiammiferi. Lo aveva donato lei a mamma , non rammentavo in quale occasione. “Deve sparire!”, stabilii. “Tutto, qui, sparirà!”.
“Il lato positivo”, considerai, “è che non sarò più costretto a mettermi queste impossibili cravatte… Eccone una di buon gusto! Ma l’ha scelta mia madre… “.
In auto, accesi la radio, ma la spensi all’istante, per il fatto che trasmetteva un motivo a me e Patrizia particolarmente caro. Altro materiale da pattumiera! Nulla avrei salvato, neppure uno spillo: avrei fatto il vuoto assoluto: dentro, e intorno a me!
Mentre cercavo le chiavi di casa, mi trovai le lettere in tasca: quelle da Pat inviatemi, che per l’insolito, appassionato tenore, mi avevano stupefatto. Il primo impulso fu quello di ridurle in poltiglia. Qualcosa, tuttavia, me lo vietò, a dispetto di tutto.
Erano messaggi così imprevedibili, così colmi di nostalgia…: gli unici che mi avevano dato un tangibile attestato di sentimenti, che non avrei mai sospettato che nei miei confronti provasse… E mi risultava sempre più difficile conciliare il carattere superficiale di Pat, con lo stile di quegli scritti… Li avrei riposti, scordandone l’esistenza. Ma distruggerli, non potevo proprio!
L’immediata preoccupazione, appena giunto all’Ospedale, fu quella di cercare il primario neurologo, ma mi dissero che non era ancora in studio. Gli lasciai quindi un messaggio, dove lo pregavo di chiamarmi al più presto, avendo urgenza di conoscere i referti della signorina Bosetti.
Ero appena uscito dalla sala operatoria, quando il telefono squillò:
<<Ciao, Ruggeri, è per ragguagliarti in merito alla Bosetti. E’ condannata, purtroppo: io l’avevo sospettato all’istante. Tumore al cervello. Maligno!>>.
<<Ma… ne sei sicuro?...>>.
<<Perbacco! I sintomi, del resto, c’erano tutti: mal di capo parossistico, ipertensione, la “papilla da stasi”. Ma quello che m’ha dato la quasi certezza è stato
<<Per quanto ne avrà?>>.
<<Guarda Ruggeri, potrei sbagliare, ma più di tre, quattro mesi, non direi>>.
<<E’ impossibile!>>, ad alta voce, dissi.
<<Se non fosse così avanzato, potremmo intervenire… Tuttavia in queste forme, mettere mano è sempre un rischio…>>.
<<Come la tratterete, allora?>>.
<< La chirurgia, abbinata alla terapia radiante e alla chemioterapia introarteriosa, non servirebbe più. Agiremo esclusivamente a livello antalgico. Andrà ricoverata, comunque… >>.
<<Quando?>>.
<<Quando non sarà più possibile fare altrimenti>>.
<<Scusa, Fantoni… io sarò molto vicino a questa ragazza, essendo una mia amica, oltre che paziente. Perciò ti chiedo: cosa dovrò aspettarmi?>>.
<<L’evoluzione del male, lo sai, è sempre soggettiva. Potrebbe avere una paralisi, parziale o totale, una grave alterazione della personalità, accompagnata da deliri… come potrebbe rimanere lucida sino all’ultimo istante. Data la localizzazione del male, è facile compaiano tremori, sul tipo del Morbo di Parkinson… Ma vienimi a trovare, Ruggeri! Ne parleremo con più calma>>.
Rimasi a lungo con la testa fra le mai. Inebetito.
Tutto ciò era troppo crudele! E inconcepibile. Improvviso. Io pure avevo avuto l’atroce sospetto, ma m’ero rifiutato di ammetterlo anche con me stesso. Non si pensa mai al peggio, quando si tratta di persone care…
Poi mi resi conto che dovevo comunicarlo a Pat.
<<Occorre che ti parli di Nadia>>, le dissi. << Dove possiamo incontrarci?...>>.
<<Vengo subito, e ti aspetto al bar Visconti>>, stabilì.
<<Cosa le porto?>>, ripeté per la seconda volta il cameriere.
<<Roby; cosa vuoi?...>>.
Mi riscossi:
<<Un Gin Fizz. E tu?...>>.
<<Io ho già consumato>>.
“E’ sua sorella”, ragionavo, “non devi essere brutale!...”. Ma quando tornò a sollecitarmi, sparai:
<<Non c’è più nulla da fare, Pat!>>.
Il resto del colloquio lo ricordo assai vagamente. Avevo assunto dei tranquillanti, e l’aggiunta del liquore mi aveva dato “il colpo di grazia”.
<<Tacciamo con la mamma, finché sarà possibile!>>, nel tragitto verso casa, mi disse. <<E anche riguardo ai nostri rapporti… , che nulla trapeli! Nadia non deve lasciarci con questo cruccio!>>.
M’implorò di stare loro accanto in quel malaugurato frangente, sottovalutando il grande affetto che mi legava a sua sorella.
Il pomeriggio tornai in Ospedale, senza aver ingoiato un solo boccone, e la sera, quando andai a trovare Nadia, mi parve più pallida e abbattuta che mai, ma riuscii a mentirle:
<<Lo dicevo, io, che non c’era da scherzare! Hai un’encefalite epidemica subacuta, mia cara! Se l’avessimo scoperta in tempo, avremmo potuto evitarti un sacco di sofferenze, ma c’industrieremo in ogni modo possibile, ora, per arrestarne il corso>>.
<<Non ho timore di soffrire>>, si espresse, <<quelle che mi spaventano, te l’ho già detto, sono le “formiche”. Tu non puoi sapere cosa si provi alla sensazione che una parte di te sia morta…>>.
<<Sarò sincero>>, ripresi, evitando di guardarla, <<potrebbe sopravvenire anche rigidità muscolare, simulante una sorta di paralisi…>>.
<<Paralisi?...>>, s’impressionò, <<Ma Roberto, che razza di male ho?…>>.
<<Quello che t’ho spiegato: una malattia infettiva, che guarisce come le altre, ma non va presa alla leggera>>.
<<E come mi sarei infettata?...>>.
<<Devi sapere che , pur definendosi “epidemica”, si tratta di un morbo che può spontaneamente insorgere>>, mentii.
<<Ma ora andrò ospedalizzata…>>.
<<Se ti aggravassi, vedi, certamente l’Ospedale sarebbe la soluzione più adatta…>>.
Avevo inventato così, sui due piedi, e per tutta la notte mi chiesi se ero stato convincente.
<<Non state sempre qui>>, ci dissuadeva Nadia. <<Uscite! Due giovani non devono
trascorrere tutto il loro tempo libero accanto a un’inferma! O sono moribonda, invece?...>>.
Proprio per non metterla in sospetto, ogni tanto fingevamo di andare al cine, per poi raccontarle film, dei quali avevamo letto, tutt’al più, la recensione.
(continua)
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