di Germana Marini Ringraziai la città, poco trafficata a quell’ora notturna, che mi permise di raggiungere l’Ospedale a tempo di record.
<<Avvelenamento!>>, annunciai. <<È grave!>>.
Si salvò per miracolo: una lotta, la sua, che seguii minuto per minuto, angosciato.
Avrei dovuto avvertire il marito, ma non disponevo di un recapito, che mi consentisse di farlo, sicché non lui, si trovò accanto al risveglio, bensì il sottoscritto. <<Desidera che lo informi?>>, le chiesi, quando fu in grado di sentirmi.
Cennò, a mo’ di diniego, col capo:
<< È una faccenda che riguarda me sola >>.
Fui l’unico a farle visita nei giorni successivi, allorché rimase degente. Non fu un’impresa facile l’indurla a confidarsi, ma poco a poco la mia pazienza diede i suoi frutti.
<< La colpa del mio matrimonio fallito è da ascriversi a me soltanto >>, mi disse.
<< Non si può sposare un uomo e continuare a pensare a un altro! >>.
<< L’altro >>, tenne a chiarire, << è anche il mio rimorso: si è ucciso per me, e non riesco a perdonarmelo… >>.
I suoi occhi tradivano un’emozione profonda.
<<Il fatto di non amare il mio consorte >>, riprese, <<non avrebbe significato nulla. Voglio dire… non speravo più, d’amare. Ma Piero non si rassegnò: troppo aveva fatto per conquistarmi… per ottenere da me, se non altro, l’oblìo… Io, invece, di Marcello, parlavo di continuo, mentre lui faceva di tutto per liberarmi da quel complesso di colpa. Fui quasi sollevata, allorché il lavoro di Piero lo costrinse a trasferirsi. Si trattava di qualche mese, dopotutto… “Qualche mese, un anno, dieci anni”, osservò, stranamente calmo. “Siamo mai stati una vera coppia, Lavinia?... A questo punto non vedo per quale motivo ostinarci… “.
<<È tutto>>, concluse. <<L’ho annoiata abbastanza…>>.
Mi annoiò così poco che, non appena dimessa, mi trovai a pigiare il suo campanello, emozionato come un collegiale. Le piacciono le violette?, chiesi.
”ti” piacciono, devi dire! Che sarà mai questa tua ostinata “distanza”?....
Onestamente non aspettavo altro.
Anche mamma si appassionò alla nostra “Love Story”, “per quanto”, commentò, “nei confronti di una donna tanto provata dal destino, s’imporrà che tu ti approcci a lei con particolare riguardo… “.
Cosa insolita, la vedevo sorridere, adesso. Uscendo insieme, constatai che possedeva un entusiasmo intatto per le cose belle della natura. Si commoveva al rimirare un cucciolo, un fiore… era ingorda di gelato alla fragola, con la panna spruzzata di cannella.
“Una bambina!”, ragionavo. “Questa tragica donna, è una cara bambina! Ha un bel proclamare, lei, che la colpa è solo sua… E’ anche del marito, eccome, che non ha saputo vederla quale veramente è, come può essere, se la si sa comprendere…”.
In ogni caso, io avevo la stoffa del consolatore!
Fu docile, quando la strinsi, si lasciò andare, ma subito dopo mi allontanò.
<<A volte>>, disse, <<si è soli. Ma è un errore coinvolgere nella nostra solitudine gli altri. Dopo il fallimento con Piero, ho giurato di evitare qualunque occasione di ricascarci>>.
<<Non mi ami dunque nemmeno un po’, Lavinia?... Provi nei miei confronti lo stesso sentimento tiepido che nutrivi per tuo marito?... >>.
Ebbe un gesto evasivo: <<Tu mi attrai, sto bene, al tuo fianco. Però… >>.
<<Però?... >>. <<Non dovresti fare come Piero. Il fantasma di Marcello, non ti dovrebbe ingelosire… Ma posso pretenderlo, onestamente?...>>.
Le avrei promesso la luna… e giurai.. Non sapevo quale impegno mi stavo assumendo, né volevo riflettervi. Non vince forse su ogni cosa, l’amore?...
Ci vedemmo ogni giorno, d’allora. Correvo da lei al ritorno dal lavoro, dedicavo a lei ogni minuto libero, le rimanevo accanto anche la notte, sovente, e mamma mi girava le telefonate dei pazienti, o, più semplicemente, dava loro il numero telefonico di Lavinia. Ma diveniva ogni giorno più esigente, come se solo il soddisfacimento del più balzano capriccio, la rassicurasse sull’intensità del sentimento che per lei provavo.<<Assecondala!>>, mi consigliò un amico psicanalista. <<Vedi, quando uno si sente inutile, o non abbastanza amato, tende a procurarsi delle “compensazioni”. Concentra tutto il suo universo, in queste compensazioni; capisci?...>>.
Da qualche tempo , mi riceveva immancabilmente in vestaglia, spettinata, struccata, mentre in casa stagnava un odore di chiuso e di fumo. Cercavo di aprire le finestre, ma lei : <<Non farlo!>>, mi dissuadeva, <<ho un’emicrania da urlo e il minimo rumore m’infastidisce…>>.
Divenne pigra: non si vestiva per giorni: , disinteressata alla sua persona, come un’alienata. Io sapevo che non lo era, ma sembrava fare di tutto per apparire tale.
Il mio amore chiaramente non le bastava: io non ero che un altro Piero. Solo il suicida: quello soltanto esisteva: un morto!
Non riuscivo più a stare ai patti: ero geloso marcio e m’infuriavo ai suoi “magnificat”.
<<Avevi promesso…>>, si lagnava.
<<E’ vero. Ma capisco tuo marito, Lavinia… capisco molte cose, adesso…>>.
Mi accorsi che beveva, e lo giudicai riprovevole.
<<Chi sei, tu, per impedirmi di bere un bicchiere di vino a pasto?... >>, urlava. <<Se continua così, finisce che ti pianto!>>,
<<Ti ho fissato un appuntamento con il dottor Gasparri. >>, la ignorai. <<La tua depressione necessita di oculate cure!>>.
<<Non andrò da quel cialtrone!>>, tuonò. <<Tu, tua madre, tutti mi ritenete pazza. E sapete il perché?... Perché se una non si rassegna a un dolore che la tormenta, a vostro avviso, è una folle!>>.
Non ero più sicuro d’amarla. Non come un tempo, almeno. Era stata la mia “Beatrice”, ma il mistero era caduto. Tutto si ripeteva, come una maledizione!. Mi ritrovavo un’altra volta con un pugno di mosche in mano e tanta amarezza nel cuore.
Stavo riflettendo su questo, all’Ospedale, quando mi dissero che una signora mi desiderava al telefono.
<<Ciao, dottore!>>, esordì, <<scommettiamo che tutti i tuoi intrugli non mi guariranno, stavolta?...>>.
<<Che dici?>>, urlai, ben certo che fosse ubriaca.
<<E non arriverai in tempo!>>, soggiunse, <<né dirai che la porta socchiusa l’avevo lasciata apposta: per la fifa di crepare!>>.
<<Vuoi smetterla con simili scherzi?...>>, proruppi.
<<È l’ultimo, dottore. Un po’ d’indulgenza!... Comunque sei stato paziente, ed io… io volevo ringraziarti>>.
<<Sta male mia madre!>>, addussi come scusa. Uscii dal parcheggio a razzo e intrapresi una gincana pazzesca, incurante degli “stop e dei semafori rossi”.
All’ultima curva notai l’assembramento, e sbandai.
Dalla vicina Caserma sopraggiungeva un Brigadiere. Scesi dall’auto come un automa.
<<Fate largo!>>, disse qualcuno. <<Il dottore…>>.
Un volo dal quarto piano, ma era quasi composta. Se non fosse stato per la macchia che le si allargava sotto il capo, si sarebbe detto dormisse.
Giunse l’autoambulanza, la sollevarono adagio.
Salii con lei, le presi una mano. Socchiuse gli occhi un istante:
<<Marcello!>>, bisbigliò, <sei qui!>>. E li richiuse appagata.
“La stessa morte di lui!”, fu il mio primo pensiero.
Poi non pensai più. Trascorsero anni, senza che mi soffermassi sulla mia vita, sulle mie aspirazioni, su di me come uomo. Lavoravo soltanto: una macchina!
<<Non vai da Lavinia?...>>, mi chiedeva mia madre. <<Almeno una volta, potresti…>>.
Non avevo seguito il suo funerale, né mi ero mai recato al Cimitero. Non sapevo neppure dove l’avessero sepolta. “Così posso illudermi che sia stato un brutto sogno… “, mi scusavo con me stesso.
Ma non era soltanto questo. Provavo del rancore, per lei, come già per Silvia (le identificavo, ormai.). E non tanto per non l’avermi amato, quanto per lo spettacolo di loro triste che mi avevano lasciato in ricordo.
(continua)
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