di Germana Marini “Domenica!”, pensai destandomi, con l’amaro ancora in bocca. “Che giornata balorda”… Una volta, no, quando papà non era ancora entrato in sanatorio, attendevamo trepidanti quel giorno, perché insieme ci recavamo a pescare. Ma non c’era andato più: dipingeva soltanto, o dormiva.
Fu con enorme stupore, pertanto, che lo vidi equipaggiato di tutto punto: giacca, stivali, lenza e cestello.
<<Che ne dici?, vieni?...>>, biascicò. E aggiunse: <<Dobbiamo sbrigarci, però. Guarda che sole!>>.
Non me lo feci ripetere, e qualche secondo dopo, camminavamo a fianco.
Nel “nostro posto” eravamo assolutamente soli.
<<Li prendiamo tutti noi, i pesci >>, mi disse. <<Vedrai che abbuffata, a pranzo!>>.
Poi, mentre fissava l’esca al l’amo, si schiarì la gola: << A proposito, Roby, di quanto accaduto, non so che m’ha preso… io…>>.
<<Oh, non fa nulla. Ho capito benissimo, credi! Tu ti eri formato di Silvia un concetto così… insomma… elevato… >>.
Realizzai con delusione che non era stato il rimorso soltanto ad indurlo a scusarsi, bensì la necessità d’indagare cosa avesse rappresentato Silvia per noi, o per meglio dire, per me.
Tuttavia il ravvisare in lui il mio passato tormento, il vederlo ripercorrere un ben noto calvario, promosse in me una solidarietà profonda. E, a colpo sicuro, sparai:
<<L’amavi, papà. Non è vero?>>.
<<Roberto!>>.
<<Non ti chiedo se siete stati amanti, perché il problema non si porrebbe. L’avresti già scordata. Ti chiedo se ne eri, se ne sei, innamorato>>.
La canna ondeggiava come sotto il peso di un luccio. Ma quantunque un luccio avesse abboccato davvero, non se ne sarebbe accorto, emozionato com’era. Io,“sette etti”, figlio, che psicanalizzavo mio padre, che gli svelavo la vita, gl’inganni, della vita! Mi crogiolavo come un eroe al sole di quel gesto:
<<Ti parrà strano, didascalico, il mio tono. Ma non lo è se pensi… che ci sono passato anch’io. L’ho amata e odiata proprio come te, papà! >>.
Ero partito in quarta e andai fino in fondo, senza interrompermi mai. Gli raccontai nei particolari ogni cosa: sensazioni, avvenimenti: tutto.
Tornammo con un pesciolino smilzo, ma complici. Alleati. Avremmo discorso da uomo a uomo, d’ora in poi!
Inspiegabilmente, dopo quelle confidenze, lui tornò a isolarsi. Stavamo insieme a lungo, ma non si apriva più. A ben riflettere, era pur sempre un padre. E il pudore di un padre va rispettato, si sa.
Ogni notte, regolarmente sognavo di riaffrontare con lui il “nostro problema”, convinto com’ero che, uniti, saremmo guariti più in fretta. Nel sogno ero vittima di una sorta di sdoppiamento psichico. Una parte esponeva e l’altra riscontrava, con una lungimiranza, una logica davvero sconcertanti. La parte logica era costituita da mio padre, della cui razionalità e saggezza avevo un bisogno talmente vitale, che le notti che non sognavo, il giorno dopo mi sentivo uno straccio. Allora non sapevo che la mia altro non era che un’inconscia ricerca di soccorso.
Mi faceva male vedere papà circolare per casa come un estraneo, guardare la mamma, quell’angelica donna, al pari di un oggetto. “Soffre per l’altra”, pensavo, “che non vale una sua unghia!”. E resistevo a stento all’impulso d’insultarlo.
Ma non era solo questo: la vita a Sondalo l’aveva profondamente cambiato e non faceva che rimpiangerla. Non tardai a scoprire il perché: là dentro era “qualcuno”, poteva sognare d’esserlo, almeno, e c’era chi avvallava i suoi sogni.
Dipingeva senz’anima, adesso, e quando gli capitò un tizio che stimò un suo “olio” al punto di offrirgli una discreta sommetta, glielo vendette, ma disse ch’era pazzo.
Trascorse un anno, o poco più, poi tornò in sanatorio. “Una ricaduta improvvisa”, dissero. Ma io non potei impedirmi di pensare che, come l’entusiasmo di ritrovarla, l’aveva guarito, così la consapevolezza di averla persa, gli era stata fatale. Da allora, per anni, fu un alternarsi di miglioramenti e peggioramenti inspiegabili. Un andirivieni penoso.
Per merito della mamma, degli enormi sacrifici che affrontò, potei finire il liceo. Benché “medicina” fosse stato sempre il mio sogno, mi rifiutai di sfruttarla oltre, deciso ad accettare un impiego qualunque, pur di darle sollievo. Ma allorché m’accorsi della delusione che provava, lei così orgogliosa al pensiero del figlio dottore, capii che iscrivermi all’Università, era il male minore.
Frequentavo il primo anno, quando papà ci lasciò. Ma non nel senso che si potrebbe pensare. Rimessosi, almeno provvisoriamente, in salute, uscì dal sanatorio, ma non per tornare da noi. Seguì una cantante lirica di belle speranze, illudendosi rappresentasse la sua compagna ideale. L’aveva ripetuto spesso, con rammarico:
<<Avrei dovuto incontrare una del mio stampo, un’artista che sapesse capirmi!>>.
Per mamma fu un colpo, ma era diventato inesistente da tanto, che riuscì a superare dignitosamente la prova.
Da questo secondo trauma, io uscii più maturo. Con una dose di cinismo che m’indusse a valutare ogni cosa con prevenzione e distacco. Nei confronti delle ragazze; soprattutto, ero così diffidente, che mi orientavo apposta verso le più leggere: un’avventura senza strascichi, e tanti saluti a casa!
Tuttavia accadde anche a me di “sbattere la testa”, e in più di un’occasione. In quelle circostanze divenivo impossibile: al minimo cedimento, le condannavo senza pietà, per il fatto che in ognuna “vedevo Silvia”. E guai se, per loro sfortuna , erano accentratrici, o sofisticate, giacché coglievo in loro altrettante Madame Bovary, candidate al tradimento… “Ci sono persone”, diceva Chamfort, “che hanno bisogno di primeggiare, d’innalzarsi sopra le altre, a qualunque costo. E pur che siano in evidenza, poco importa che si trovino su un teatro, o sul palco di un saltimbanco, sul trono o sul patibolo: dovunque stanno bene, purché attirino gli sguardi di tutti!”.
Ecco, io fuggivo in special modo le esibizioniste, con pretese artistiche di qualunque specie, come Silvia e papà.
Dottorino in erba e con scarsa clientela, arrivai al punto di dire a una paziente:
<<E’ inutile che si tolga il reggiseno, signora. Tanto le ascolterò soltanto i bronchi…>>.
Provavo un gusto sadico nell’umiliare una bella donna, specie se l’intuivo consapevole del suo fascino. Mia madre si angustiava che non riuscissi “a posare”. Lo definiva così quel mio “svolar di fiore in fiore”. Ma il denominatore comune, ricorrente come un “leitmotiv” della mia irrequietezza, era sempre lo stesso: l’ostinata negazione della realtà!
Oh come lo capivo, adesso, il Cardarelli!...: “Al tocco della realtà, i misteri che tu prometti, si disciolgono nel nulla!”.
C’erano momenti, in cui avrei dato non so cosa per poter tornare ai miei tredici anni colmi di promesse, quando papà stava bene, ed eravamo una famiglia unita. Allorché la bufera era ancora lontana, e mi bastava un nonnulla per essere felice…
Da tempo ci eravamo stabiliti in città e abitavamo al sesto piano di un moderno condominio. Al primo, in società con due colleghi, avevo uno studio, dove ricevevo, a giorni stabiliti, i pazienti.
In Ospedale avevo fatto progressi e il primario mi dimostrava considerazione e simpatia Ora mia madre non era più costretta a strofinare pavimenti. Si occupava solo di quel “bijou”, come definiva l’alloggio, facilitata da ogni comfort.
<<Faccio la signora>>, raccontava in paese. <<Mi annoio perfino, e lui… lui lo vedo così poco…>>.
Lavoravo sodo perché volevo darle di più, e non finanziariamente soltanto. Ricompensarla della vita grama che aveva condotto, con la soddisfazione di sapermi “a posto”. La nostra intesa era veramente perfetta: la facevo partecipe d’ogni mio progetto, e lei pure mi dipingeva la sua giornata: fatti banali, forse, ma che ascoltavo interessato, lo stesso. Non si era ancora del tutto ambientata, in città, e non aveva che me. I nostri dirimpettai, come la maggior parte degli altri, erano una coppia giovane, e lavoravano entrambi. Quali affinità poteva avere, con loro?...
Poi quelli del piano di sotto traslocarono, e al loro posto s’insidiò una coppia, moglie e marito, in vero originale sotto molti aspetti. Mamma ne fu entusiasta. <<Con questi qui, forse potrei “legare”; non pensi?>>.
Attese qualche tempo, poi mi comunicò scoraggiata: <<Lei è una suora di clausura!>>.
<<Chi?...>>.
<<Ma la signora di sotto, la nuova! Così giovane e bella, e il marito, si mormora, la trascuri, con la scusante di fantomatici “straordinari” che lo obbligano a rimanere, fino a tarda sera, al lavoro…>>.
M’ero completamente scordato dell’esistenza della “suora”, quando un giorno, appena entrato in casa, m’investì: <<Piange, Roberto: piange!>>.
<<La Madonna?...>>, arretrai. <<Ma che Madonna… lei! L’ho vista proprio bene, quando è uscita sul balcone!>>
<<Tu, sempre pronta a fare congetture… Una non può avere il raffreddore, adesso…>>.
E poi la incontrai. Una sera che diluviava, ero sceso in cantina, quando la corrente mancò , e nello stesso istante udii un urlo. Feci scattare l’accendino, e la vidi: due occhi dilatati per il terrore del buio, le piccole mani serrate l’una all’altra.
La luce si riaccese, ma rimasi con l’accendino in mano, a illuminarla, come un allocco, e solo quando il suo sguardo si fissò su quell’inutile aggeggio, lo ritrassi, confuso.
<<Lei è il dottor Ruggeri, vero?...>>.
<<Esatto. E lei la signora…>>; che potevo dire?... La signora del piano di sotto, o la suora di clausura?... Ma che colpa avevo se mia madre dava a tutti dei soprannomi?..
<<Valenti>>,sussurrò.
<<Valenti>>, ripetei, <<Ma certo!>>, dopodiché fummo abbagliati da un lampo e, subito dopo, le tenebre ci riavvolsero, ma non urlò più, rassicurata dalla mia presenza.
“E’ affascinante”, pensavo. “Chi l’avrebbe immaginata così?...”.
Quando tornai ad illuminarla, in quella fievole luce mi apparve irreale. Io avevo un debole per le cose irreali, ma in quel momento fui certo che neppure Silvia, al suo apparire, mi avesse procurato un’emozione tanto intensa.
<<E’ stato gentile>>, si accomiatò, <<la ringrazio!>>.
Dopo quell’episodio mi sorpresi a trascorrere molto più tempo, in casa. Dalla mia camera scorgevo il suo balcone. Non compariva spesso, ma in giornate di sole si sedeva a leggere, a scrivere, o rimaneva assorta, lo sguardo misterioso. Lontano.
Sul lavoro, per strada, in ogni donna cercavo una somiglianza con lei… Qualche inezia che me la rammentasse. “Silvia, rimembri ancor…”, recitavo al tempo in cui segretamente l’amavo. Ora la mia dea si chiamava Lavinia, e avevo trovato quel nome stupendo, ma per me rimase sempre “Beatrice”. L’avevo eletta a mia Beatrice,
ormai. Non mi aveva ispirato forse quell’amore puro, sublime, proibito?...
La sua separazione dal marito fece scalpore, giacché nulla l’aveva fatta prevedere. Nel caseggiato si mormorò per qualche tempo, ma, come in genere accade, dimenticarono presto. Ma il suo atteggiamento schivo non mutò. Si chiuse, semmai, maggiormente in se stessa.
La vigilia di Pasqua la città si spopolò. Un esodo da non potersi raffrontare neppure al ferragosto. Anche il nostro casamento rimase pressoché deserto.
<< Deve essersene andata anche la “suora” >>, fu il commento di mia madre. <<Sono due giorni che non la vedo e nemmeno la sento…>>.
Quella notte stessa, poco dopo l’una, dovetti alzarmi per un’emergenza.
L’ascensore era in panne, e fui costretto a scendere per le scale. Buttavo uno sguardo alla sua porta ogni volta che passano: un’abitudine. Un rito. Così feci quella volta. Stavo già passando oltre quando un odore acre colpì le mie narici. Gas!, non poteva essere altro, e proveniva dall’appartamento di lei! Ero sul punto di abbattere la porta o di chiamare qualcuno in soccorso, quando mi accorsi che cedeva. Resistendo alla zaffata, armeggiai per sganciare la catenella all’interno, ma non mi rimase che spezzarla a spallate. Spalancai le finestre e, nella penombra, la vidi: abbandonata sul divano, un tubetto di Nembutal semi vuoto.
L’Autoambulanza?... : no, avrei fatto più presto io!.
La sollevai col cuore in tumulto. Il tepore del suo corpo mi confortava, in parte, ma non c’era un minuto da perdere!.
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