2021-07-03

COLLE DELL’INNOMINATA, ANNO 1961: LA TRAGEDIA CHE DÀ LUCE A UNA VITA

Renato Frigerio Un personaggio di primo piano dell’alpinismo lombardo, e una tragedia imprevedibile che ha a suo tempo lasciato tutti esterrefatti, non possono essere dimenticati, come se non avessero mai segnato un’impronta profonda nella storia. Il ricordo diventa un obbligo quasi fondamentale se la tragedia ci torna ancora più sentita per il suo sessantesimo anniversario.

È per questo motivo che ci associamo ai tanti appassionati di alpinismo che hanno conosciuto, o che almeno hanno seguito Andrea Oggioni nelle sue grandi imprese di montagna, di cui è stato protagonista allo stesso tempo sorprendente e umile, con una modestia che lo rendeva subito amabile e ora indimenticabile. 

Andrea Oggioni, classe 1930, era nato in Brianza, dove visse col papà, la mamma, un fratello e una sorella, in una casa rurale a Villasanta, alle porte di Monza. Nel 1961, una settimana dopo il suo ritorno dalla seconda spedizione in Perù, con Walter Bonatti e Roberto Gallieni, si portava nel gruppo del Monte Bianco per tentare la difficilissima scalata del Pilone Centrale del Frèney, che costituisce una “via diretta” alla cima più alta d’Europa. Ma qui, dopo giorni di maltempo, con tormenta, grandine, neve e temperatura a 20 gradi sottozero, moriva di sfinimento. Pierre Mazeaud, il notissimo alpinista francese, che si era unito alla cordata italiana, è stato l’unico testimone della morte di Oggioni, dato che i due erano rimasti attardati nell’affannosa rincorsa verso il rifugio Gamba. Tra le sue braccia, alle ore due e un quarto della notte del 16 luglio 1961, dopo sei giorni interminabili di una terribile odissea, in circostanze leggendarie, si spegneva la luminosa esistenza di Andrea. 

 

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Mi chiedo se abbia ancora senso ricordare una persona che abbia lasciato sulla nostra terra una traccia di bene o di valore, quando proprio questo nostro mondo sembra impazzire ogni giorno di più nella frenetica rincorsa di traguardi, di successi, di novità. A che cosa serve ricordare, se nessuno più crede di trarre profitto nel concedere un po’ di attenzione al passato? A chi ancora può interessare riflettere sul fatto che 60 anni fa scompariva una delle figure più affermate e promettenti dell’alpinismo italiano? Chi l’ha conosciuto personalmente, e chi anche da essi ne ha sentito a viva voce raccontare le sue incredibili imprese, non ha certo bisogno di leggere un articolo per rinverdirne il ricordo: un alpinista come Andrea Oggioni non può essere dimenticato, unico come è stato nella sua irripetibile dimensione. Non sarà questo allora un ricordo, ma un semplice richiamo che viene da lui, dal suo modo di capire la vita e la montagna: un indirizzo che può essere attuale e degno di attenzione anche nell’epoca delle sfrenate rincorse, forse per illuminare nuovi obiettivi o per meglio inquadrarne degli altri. Se ad Andrea Oggioni dedichiamo come lecchesi un attimo di attenzione, non è solo perché a Lecco è stato vicino con un profondo amore per le sue montagne, e nemmeno per la sua grande amicizia verso tanti nostri concittadini, ma perché dalla sua conoscenza l’alpinismo e il senso stesso del vivere possono ricevere spunti di rara vitalità. 

Sessant’anni segnano nella nostra epoca postmoderna un abisso del confronto delle generazioni: al giorno d’oggi Andrea Oggioni non lo comprenderemmo più. Come può essere del resto concepibile da chi vive nella civiltà dei consumi che un robusto giovanotto di diciotto anni che lavora duramente in fabbrica sei giorni la settimana, si alzi di buon’ora anche la domenica per prendere il treno cha da Villasanta lo porta a Lecco e da qui poi raggiunga i Piani Resinelli: ma non con la corriera – che costa! – e nemmeno calzando gli scarponi – che si consumano! – ma mettendosi ai piedi dei poveri zoccoli per salire i dieci chilometri che coprono i mille metri di dislivello, attraverso il sentiero della Val Calolden! Ma arrivato ai Resinelli, per Andrea è come essere entrato nel paese delle fiabe, ai piedi di quelle vette dalle forme più varie che ogni mattina sulla strada del lavoro, quando l’aria è tersa, può vedere ed ammirare con gioia segreta. Ed ora su quelle vette può finalmente salire, affrontando pareti sempre più difficili, anche se il suo abbigliamento richiama più l’operaio metalmeccanico che l’alpinista. 

Ma le bellissime guglie della Grignetta sono un brevissimo trampolino di lancio, perché nello stesso anno della sua prima salita su roccia, il Fungo, Andrea passa ad affrontare le più impegnative Dolomiti, nel gruppo del Vajolet: con Josve Aiazzi, che diventerà subito il suo inseparabile compagno di cordata, scalarono la slanciata Torre Delago. Da questo momento il suo è un bruciare di tappe, un emergere rapido in un ambiente dove i grossi nomi non mancano certo e farsi luce è tutto merito della propria classe e volontà. Entra a far parte del prestigioso gruppo Pell e Oss della U.O.E.I. Sezione di Monza e si lega ben presto con gli esponenti più rappresentativi di quella generazione di alpinisti: Walter Bonatti, Josve Aiazzi, Carlo Mauri, Luigi Castagna, Cesare Giudici, Arnaldo Tizzoni, Dino Piazza, Pierluigi Airoldi, Gigi Alippi, Romano Merendi, Nando Nusdeo, Angelo Pizzocolo, Gianni Arcari, Gianluigi Sterna, Luciano Tenderini, Camillo Zamboni, Vasco Taldo e Armando Aste. A soli 24 anni è ammesso al Club Alpino Accademico Italiano: è il più giovane tra i membri, e questo la dice lunga sul suo conto. Ha esordito infatti strabiliando tutti, per essere riuscito a soli 19 anni a ripetere di seguito le tre grandi prime di Riccardo Cassin, la Nordest del Pizzo Badile, la Nord della Punta Walker alle Grandes Jorasses e la Nord della Cima Ovest di Lavaredo, e poi la Ovest dell’Aiguille Noire de Peutèrey, dei lecchesi Vittorio Ratti e Gigi Vitali, seconda ripetizione. Compie sulle Dolomiti prime ripetizioni di vie di grande prestigio, coma la via Livanos-Gabriel (o dei Francesi) alla parete Nordest della Cima Su Alto in Civetta e la prima invernale della via Costantini-Apollonio al Pilastro Sudovest della Tofana di Ròzes. Sempre sulle Dolomiti traccia tre vie di altissimo livello tecnico: la parete Sud della Cima di Campiglio, il Grande Diedro sulla parete Est della Brenta Alta e la via della Concordia sulla parete Sudest della Cima d’Ambiez. Le vittorie si susseguono con un crescendo incredibile: ma difficilmente si può trovare una sua fotografia che ne evidenzi il giusto orgoglio. Andrea ci appare sempre con un volto intenso ma modesto, e quando sorride si scorge immancabilmente in lui un velo di tristezza che nasconde una profonda nostalgia. I suoi orizzonti alpinistici si allargano nelle due spedizioni alle Ande, che effettua nel 1958 alla Cordigliera Apolobamba, sul confine peruviano-boliviano, e nel 1961al Cerro Rondoy Nord, di 5821m, nella Cordigliera di Huayhuash, che conquista insieme a Walter Bonatti. Con Bonatti intanto, dopo che Josve Aiazzi ha abbandonato il campo per sposarsi, e con Roberto Gallieni forma la più splendida e affiatata cordata degli anni ’50. Il loro obiettivo è il Monte Bianco, proprio la vetta massima, per tracciarvi vie suggestive di grandi difficoltà alle quote più alte. Se i Pilastri del versante Sud del Monte Bianco, dal Pilastro Rosso del Brouillard alla Sudest del Mont Maudit, alla “Chandelle” del Pilone Centrale del Frèney, rappresentano il punto di massima affermazione della cordata, parimenti Andrea vedrà stroncarsi la sua giovane vita. La tragedia si compie la notte del 16 luglio 1961 al Colle dell’Innominata, a pochi passi dalla vetta della “Chandelle”, a 4700m di quota. Andrea ha appena festeggiato i suoi 31 anni, è nel pieno di una giovinezza che vive in modo intenso ed appassionato: eppure nella lotta per superare una situazione ormai disperata pensa ai suoi compagni prima che a se stesso! Andrea Oggioni è un alpinista che si è realizzato completamente ed ai più alti livelli in soltanto poco più di dieci anni di attività: ma nello stesso tempo e nello stesso modo si è realizzato come uomo nel senso più integrale e reale, in quel senso proprio che la nostra società – che corre all’impazzata – sta dimenticando o non ha forse mai conosciuto. È sorprendente riscontrare in un giovane senza cutura, come lui era, una visione del mondo e della vita che può anche non essere condivisibile, ma che certo è impostata con chiarezza ed una logica del tutto carente i tanti, che oggi si atteggiano ad intellettuali. Non si tratta di semplice buon senso: la sua è evidentemente quella intelligenza del cuore di cui parla Pascal, l’intelligenza di chi sa guardarsi ed ascoltarsi nel silenzio o nella contemplazione delle cose grandiose del creato. Il modo di accostarsi di Andrea alla montagna, il suo appassionato correre per conoscerla sotto tutti i suoi aspetti, di affrontarla nei suoi lati più ardui e misteriosi, e nello stesso tempo la pace e la serena tranquillità con cui si sofferma lungamente ad osservarla e ad ammirarla ci inducono a ritenere che il conquistatore non sia lui, ma che piuttosto egli sia stato conquistato dalla montagna stessa. Ed è anche la sua concezione dell’alpinismo che ci conferma che le cose stessero appunto così. 

Il punto di partenza è certamente un animo che si è mantenuto fanciullo, un animo che con naturalezza sempre si interroga e poi si lascia rivolgere la domanda dal bello, dal sublime che trova la sua espressione massima nella maestosità delle vette. “Il senso di meraviglia non è una bruma nei nostri occhi o nebbia nelle nostre parole. La meraviglia, o lo stupore assoluto, è un modo di trascendere ciò che è dato nelle cose e nel pensiero, è il rifiuto di considerare qualcosa come scontata o come conclusiva. È la nostra onesta risposta alla grandiosità e al mistero delle realtà, il nostro modo di affrontare la realtà data”: lo ha scritto il filosofo ebreo Abraham Heschel, ma è stato anche, ne siamo certi, il principio implicito da cui ha preso ispirazione lo stile di vita di Andrea. A fronte della sublimazione della montagna e dell’alpinismo, ci diventa chiara e pienamente comprensibile la concezione di Andrea Oggioni sull’alpinismo: una concezione che non ci è consentito ignorare quando al giorno d’oggi tanto dibattiamo nella ricerca di nuovi orizzonti per risolvere non più prorogabili problemi. Alpinismo come espressione di una realtà interiore, come ricerca di un mondo consono a questa realtà, la cui pratica non ha proprio niente in comune con il funambolismo. Un alpinismo che venga vissuto per se stesso, non per i propri interessi, né per la gloria: un alpinismo che preveda l’apertura verso gli altri, con cui condividere soddisfazioni e sacrifici e gioie. Un alpinismo fatto per la vita e non viceversa, in cui il rischio non è ammesso, come non è ammesso barare, né con gli altri né con se stessi. 

Anche se paradossarmente la sua tragica scomparsa sembri contraddire alcuni di questi principi, è doveroso ricordare che pure in quella sua ultima impresa la decisione era stata presa nel pieno rispetto della prudenza e con piena conoscenza pratica e scientifica delle situazioni ambientali, sempre coerente con la sua affermazione di non essersi mai pentito di tutte le rinunce fatte per non mettere a repentaglio la vita. 

Il ricordo di Andrea Oggioni è fatto di episodi, di sensazioni, ma anche di parole, quelle che ha scritto nel suo diario per voler essere utile agli altri… “anche dopo morto, per poter guidare qualcuno in montagna”.

L’immagine più commovente e preziosa che ci rimane è il suo altruismo, o meglio il suo amore per chi di volta in volta gli stava vicino, un amore che si è concluso nella dedizione totale in quella tremenda notte del 1961 al Colle dell’Innominata. Quanto è successo quella notte è una luce vivissima che la squarcia ed illumina lui, inimitabile alpinista, ma si diffonde a far risplendere e a nobilitare la storia stessa dell’alpinismo. 

 

 

 

Bibliografia: “Andrea Oggioni. La vita dello Spirito nel Ritmo delle Cose” – Editore Tamari. 

 

 

 

 

 

 

Elementi di rilievo: nelle principali direttrici di salita del Monte Bianco, sul versante Sud, abbiamo la parete del Frèney, la quale non è che il lato Est della Cresta del Brouillard: una muraglia alta almeno 800m, fra la Cresta del Peutèrey e l’Innominata. È sulle rocce del Pilone Centrale del Freney, e poi sulla via del ritorno, che si consumò l’impressionante e struggente dramma, qui ricordato. 

 

 

Note di cronaca: la prima assoluta del Pilone Centrale del Frèney è attribuita a Chris Bonington, Ian Clough, Jan Duglosz e Don Whillans, dal 27 al 29 agosto 1961. 

Una postilla: contemporaneamente il 28 e 29 agosto, fu scalato anche da Ignazio Piussi, Renè Desmaison, Pierre Julien e Yves Pollet-Villard. 

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