di Germama Marini - Correva l’anno 1950, ed io, scolaretta di otto primavere soltanto, frequentavo la terza elementare presso le suore di Maria Bambina, in via Cairoli a Lecco.
Del tutto negata per il “fare di conto”, ero in compenso dotata di una fervida fantasia, tale da lasciare basita suor Carolina, la quale dopo aver narrato alla scolaresca la favola di Cappuccetto Rosso, aveva chiesto a noi piccole alunne di scrivere un paio di righe in merito, a dimostrazione di aver recepito il concetto.
Era così accaduto che da quel preciso istante io non avessi fatto altro che recarmi, con sospetta frequenza, alla cattedra, per richiedere rifornimenti sempre più ingenti di fogli. Al che:
“Bada di non commettere più errori, Germana”, m’aveva redarguita l’insegnante,
“o sarò costretta a farti sospendere la prova!”.
Con il capo chino per l’imbarazzo, ero tornata a seguitare il mio compito nel banco, finché m’ero dovuta nuovamente interfacciare con la suora, al fine di consegnarle nientemeno che una quindicina di pagine, da me vergate a minuzioso commento.
Con il risultato che ella mi aveva inviata nelle classi superiori, onde prendessero visione di quell’ineccepibile, chilometrico saggio.
Episodio che s’era ripetuto di lì a qualche giorno, allorché, in prossimità del Santo Natale, l’insegnante ci aveva nei minimi dettagli edotte sulla nascita del Bambinello Gesù, avente avuto per culla un misero giaciglio di paglia, all’interno di una gelida stalla. Per non parlare delle sfiancanti, vane peregrinazioni compiute da Maria, gravida, e da Giuseppe, per reperire un ostello tra i più modesti, in cui riposare le loro stanche membra.
Nero su bianco, mi ero così in modo particolare impegnata a fedelmente riportare
il racconto della suora, alla cui conclusione non avevo tralasciato di esternare la mia incontenibile letizia al pensiero che mancasse ormai pochissimo alla venuta del Divino Infante, ricolmo di doni, da dispensare a noi bambini tutti.
Sennonché, non appena suor Carolina aveva letto ad alta voce quanto sopra, un mormorio si era levato a livello di classe. Cosa della quale, all’uscita da scuola,
avevo chiesto conto.
“Non dirci che credi ancora sia il Bambinello a scendere dal Cielo con la gerla straripante di regali…”, mi avevano impietosamente dileggiata le compagne.
“E chi se no?”, le avevo sfidate.
“Ma papà e mamma, credulona!”, s’erano fatte beffe di me, scoppiando in una sonora risata; mentre io, dalla bambina ipersensibile che ero, avevo vissuto quella rivelazione alla stregua della “fine del mondo”, non riuscendo a prendere sonno per l’intera nottata, e lo stesso dicasi per quelle seguenti.
Gli occhi sbarrati nel buio, il cuore che mi batteva a mille:
“Natale!”, mi dicevo, “ ma quale, Natale, se Lui, il Pargolo Celeste, non toccherà con le sue manine quei doni, che recapitatimi dai genitori non avranno alcun valore, ancorché costosissimi?...”.
Al punto di dubitare che, se così stavano le cose, Lui stesso, quel Gesù tanto amato e cui elevavo fervide preci, non esistesse, in realtà!
Dentro di me sentivo che non corrispondeva al vero, tuttavia non cessavo di reclamare da Lui un chiaro segno della Sua presenza.
Una delusione cocente, inesprimibile, che mi avrebbe accompagnata sino alla Notte Santa, trascorsa a vegliare nella folle speranza ch’Egli deponesse presso il mio giaciglio un minuscolo balocco; uno solo, ma reso prezioso dal poter tangibilmente avvertire il calore della Sua paradisiaca impronta.
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