di Renato Frigerio - La professione di guida alpina, così come noi la configuriamo, è vecchia di almeno due secoli e forse più ed è sorta nel periodo delle prime esplorazioni effettuate sull’intero arco alpino. La prima Società di Guide è stata costituita a Chamonix nel 1821 poi, anche nel nostro Paese, gradualmente le guide fanno la loro apparizione cominciando con l’accompagnare gli inglesi che calano a frotte in Italia dato che considerano le Alpi il loro terreno di gioco preferito. Il denaro? Certo lo fanno anche per quello ma nel loro profondo dell’animo non c’è inclinazione per questo mestiere ma soprattutto un grande amore per la montagna. Senza questo spirito non si abbraccia un’attività di questo tipo fatta di rischi, difficoltà e sacrifici.
Ma chi è stato il primo? Forse Jean Laurent Jordaney, di Courmayeur, che nel luglio del 1774 accompagnò il professore ginevrino Horace-Bènèdicte de Saussure in una ricognizione sul ghiacciaio del Miage posto in Val Veny sul versante italiano del Monte Bianco e successivamente lo guidò nella prima ascensione nota del Crammont, una cima che si eleva a 2737m poco sopra l’abitato di Prè Saint Didier. Ed è a lui, che con ogni probabilità possiamo attribuire il merito di essere stato la prima grande guida anche se, particolarmente nel secolo scorso e su tutta la fascia alpina, di guide valide ne abbiamo avute tantissime: da Jean-Antoine Carrel a Èmile Rey, da Bortolo Zagonel ad Angelo Dibona, da Arturo Ottoz a Giovanni Battista Piaz (soprannominato “il Diavolo delle Dolomiti” per l’arditezza delle sue vie), tanto per citarne qualcuna. Ed è proprio del grande Tita, guida famosa delle Dolomiti di Fassa, paragonabile per celebrità a Sepp Innerkofler delle Dolomiti di Sesto, che ora ci occupiamo.
Tita Piaz nasce dunque nel 1879, a Pera di Fassa, e muore nel 1948, a seguito di una banale caduta dalla bicicletta sulle strade della sua Val di Fassa. Irrequieto, passionale, istruito, suscettibile, era un uomo dalla spiccata personalità, certamente fra le più singolari, apparse nel firmamento alpinistico. Teneva conferenze e scriveva articoli per le riviste di alpinismo e possedeva una “Frera” (una moto di produzione casa Guzzi dell’epoca) il che, prima della grande guerra, costituiva un vero lusso. Scrisse pure un libro di memorie: “A tu per tu con le crode” (ed. Cappelli, Bologna, 1949). Coetaneo di Cesare Battisti, di cui era grande amico ed estimatore, Tita Piaz, benché suddito austriaco, non poteva che sentirsi profondamente italiano. La qualità e la quantità delle sue imprese, salvataggi compresi, lo pongono in una posizione di tutto riguardo in una ipotetica graduatoria fra i migliori scalatori di tutti i tempi. La maggior parte delle ascensioni più importanti, alcune delle quali toccano il quinto grado, sono precedenti la grande guerra (1900, Punta Emma, salendo in solitaria la fessura che divide in due la parete Nordest, superando il grado di difficoltà di quarto superiore raggiunto nel 1887 da Georg Winkler sulla Torre Winkler, nel gruppo del Catinaccio; 1906, traversata artificiale dal Campanile di Misurina alla Guglia Edmondo De Amicis; 1907, Torre Est del Vajolet, parete Sudest; 1908, traversata delle sei Torri del Vajolet; 1908, Totenkirchl, parete Ovest; 1911, Torre Delago, cresta Sudovest; 1912, Punta Frida, parete Nord alle Tre Cime di Lavaredo; 1913, Cima Tosa, parete Nord, Dolomiti di Brenta). Piaz proseguì la sua attività anche nel periodo fra le due guerre. A lui è stata attribuita l’invenzione del sistema di calata a corda doppia (più comunemente accreditata a Hans Dulfer), che consiste nel far passare la corda intorno al corpo.
Ho prima detto “spiccata personalità” perché le sue doti multiformi, contraddittorie, ma anche profondamente umane, lo hanno portato a trovarsi nelle situazioni più diverse che vanno dalla ribellione per tutto ciò che è codificato, alla genialità, al patriottismo.
Ma soprattutto Piaz era fortemente innamorato delle sue montagne, le Dolomiti, di cui il Catinaccio, e le Torri del Vajolet erano il suo regno.
Nonostante avesse conseguito il diploma di maestro elementare ha finito poi per dedicarsi completamente alla montagna svolgendo l’attività di guida alpina. “Tita Piaz – come ebbe a scrivere, Renato Chabod – è soprattutto la guida moderna che sa leggere, scrivere e far di conto, che viaggia in motocicletta e fa della politica. Attorno a lui si crea una leggenda, le donnette si segnano ed i birri (guardia di polizia di un tempo) dell’I.R. Governo vigilano. E per Piaz vi sarà anche la galera, anzi, come egli stesso scriverà, gli sarà riserbato il piacere di gustare le galere di ben tre regimi!”.
Vediamo allora di parlarvi di quest’uomo sotto il profilo alpinistico e di narrarvi qualcuna delle sue imprese.
Il Campanile Basso. Nell’autunno del 1901, da poco ritornato dal servizio militare, dopo aver letto la relazione stesa dai primi salitori del Campanile Basso (Otto Ampferer e Karl Berger – 18/8/1899) è attirato da questo monolito che sembra sfidare il cielo nel gruppo di Brenta. Invita l’amico Franz Wenter di Tires (era una delle migliori guide) e insieme vanno a “vederlo”. Ricorda Piaz: “Né l’uno, né l’altro conosceva il Campanile, nessuno dei due era stato nel Brenta. Ah! Valeva veramente la pena di fare una visita a questo meraviglioso colosso, dalla forma ancora più ardita della Winkler, che si poteva mettere al fianco del Campanile di Val Montanàia, nel gruppo dei Monfalconi, il principe di tutte le Dolomiti e forse delle Alpi”. I due non stanno a perder tempo ed iniziano la salita. Giunti in vetta rimasero impressionati per l’eccezionale esposizione e suggellarono con una vigorosa stretta di mano la loro amicizia ben contenti di aver superato una di quelle vie considerate “a goccia cadente”. Tutto filò liscio e in un tempo relativamente breve, la sesta salita al Basso poteva dirsi conclusa. Ventidue anni dopo, esattamente nel 1924, l’irrequieto Piaz, ormai quarantacinquenne, sempre a caccia di record, saliva il Basso la mattina e scalava le Torri del Vajolet nel pomeriggio: un exploit che ha dell’incredibile anche ai giorni nostri e ciò grazie alla sua inseparabile motocicletta che gli permetteva questi repentini spostamenti.
Totenkirchl, parete Ovest. La parete di questa montagna, situata nel Kaisergebirge, un lembo di terra fra Austria e Germania, era ritenuta per quei tempi difficilissima. Era, insomma, uno degli ultimi problemi alpinistici da risolvere. Molti tentativi erano stati fatti da provetti alpinisti, tutti appartenenti alla famosa scuola di Monaco, ma invano. Uno di essi, tale Rodolfo Schietzold, ne fece allora la discesa (oltre cento metri di corda e decine di chiodi) per carpirne i segreti e concluse che se qualcuno poteva riuscire nell’impresa, questi non poteva essere che Tita Piaz. Si mise quindi in viaggio, giunse in Val di Fassa e con tutte le argomentazioni possibili ed immaginabili, convinse l’amico. L’11 ottobre 1908 Piaz parte in moto sul cui sellino siede Schroffenegger, una guida di Tires. Sono diretti a Kufstein, in Tirolo, ove giungono dopo un avventuroso viaggio che costò la vita ad un povero cane e a due galline, investite dalla moto. Qui, sulle Alpi Tirolesi settentrionali, incontrano gli amici austriaci Klammer e Schietzold e, senza troppi indugi, si accordano sui particolari per il tentativo. La parete che cade sul fianco Ovest del Totenkirchl è alta 500 metri, è costellata di placche lisce, senza camini e con pochissimi punti di sosta. Se poi si considera che la sua linea verticale è spesso interrotta da paurosi strapiombi, allora ci si può fare un’idea ben precisa delle difficoltà che attendono le quattro guide. Portatosi all’attacco Piaz esplora minuziosamente la parete col suo binocolo e con felice intuizione scopre la via da seguire. Poi, rivolgendosi ai compagni esclama: “Vedete lassù quella paretina a destra, con un’incrinatura appena percettibile verso sinistra? Orbene vi dico che passeremo di là; anzi vi prometto che se non passerò precisamente di là, mi farò frate”. Intrapresa la salita, naturalmente Piaz funge da capocordata, passarono per quella paretina dopo che il buon Tita ebbe a superarla al termine di oltre un’ora di accanito lavoro.
In precario equilibrio su di un angusto posto di sosta, una volta assicuratosi, recuperò Klammer il quale prontamente si complimentò pregandolo di mostrargli le mani. “Ah! – disse – credevo che tu avessi delle ventose alle dita”. E qui ci scappò una gran risata.
Il resto della salita, pur su difficoltà sostenute, non oppose resistenze particolari e, con l’arrivo in vetta, dopo dieci ore di strenua lotta l’arduo problema era stato finalmente risolto.
Questa ascensione che Piaz definì “la mia scalata più celebrata” ebbe una vastissima risonanza tanto è vero che Klammer, invitato dalla sezione Bayerland di Monaco, fu obbligato a tenere una conferenza nella famosa sala dell’Hofbrauhaus nel corso della quale, applauditissimo, espose in ogni minimo dettaglio le varie fasi dell’impresa. Schietzold e Piaz non erano ancora stati scoperti come conferenzieri.
Vi sarebbero ancora molti aneddoti da raccontare su questo personaggio ma lo spazio è tiranno. Prima di concludere, però, desidero segnalare un episodio molto significativo nel quale Piaz è stato coinvolto e dal quale traspare la grande umanità di quest’uomo che mai si è sottratto dal dovere di portare aiuto al prossimo. Si tratta di un salvataggio in montagna. È il 3 agosto 1932 quando Piaz si trova in una stanzetta del suo piccolo rifugio, da lui a lungo gestito, che ha dedicato all’amico Preuss e l’orologio segna le 21. Improvvisamente viene informato che dalla Gola delle Torri provengono invocazioni d’aiuto. È stanco ed affamato perché è appena rientrato da un salvataggio compiuto sulla Delago, ma non importa: bisogna andare, qualcuno è in pericolo. Mette frettolosamente qualcosa sotto i denti poi varca la soglia del rifugio Vajolet, lì a portata di mano, e nella stanza riservata alle guide chiede se qualcuno è disponibile. Nessuno si muove. Più disgustato che furibondo corre allora nella sala da pranzo e ripete la domanda. Silenzio!
Poco dopo, dietro di lui, una esile vocina risponde: “Vengo io”. Piaz si volta e si trova di fronte un uomo che ha già il sacco sulle spalle e una corda a tracolla. Ai due si aggiunge un giovanetto di Bolzano che Piaz conosce di sfuggita. Lasciano il rifugio, al ripiano delle Porte Negre, che comincia a piovere, le tenebre sono fitte e fa abbastanza freddo. Devono percorrere il sentiero che sale tra la Gola delle Torri per arrivare al rifugio Re Alberto, poco al disotto del Passo di Re Laurino. È un balzo di 400 metri su di un terreno che con la pioggia diventa particolarmente insidioso. Ivi giunti (il termometro all’esterno del rifugio segna -3°) apprendono che dalla parete Ovest del Catinaccio provengono grida disperate. In dieci minuti arrivano a Passo Santner da dove possono mettersi in contatto con gli sventurati. Sono due alpinisti tedeschi che durante la discesa hanno smarrito la giusta via ed ora si trovano in una specie di canalone ove scorre abbondante l’acqua. Le ore passano, la notte è fonda. Continua a piovere e la situazione si fa sempre più drammatica.
“Cosa fare? – dice Piaz ai suoi compagni e prosegue: “Voi capite che la cosa è molto seria ed io non so nemmeno se riusciremo ad arrampicare fino a loro in simili circostanze; dubito anche che si giunga in tempo. D’altro canto la mia coscienza non mi permette di farvi delle imposizioni, a tutto rischio della vostra vita. Volete seguirmi? – “Andiamo!” – disse l’esile voce. “Ma, scusa, come ti chiami?” – “Emilio Comici” – fu la risposta.
Anche Grasser, il giovane bolzanino, non ebbe un momento di esitazione e i tre continuarono nella loro opera di salvataggio che si concluse felicemente alle 4 di mattina del giorno 4 agosto. Piaz non ha mai conosciuto il nome dei due tedeschi anche perché nessuno di loro ha mai sentito il bisogno di mandargli una cartolina che dicesse semplicemente “grazie!”. In questa circostanza, però, ha avuto il piacere di conoscere di persona Comici, un altro grande dell’alpinismo che perderà la vita precipitando dalla paretina Campaccia all’imbocco della Vallelunga, a mezz’ora da Selva di Val Gardena. Che Tita Piaz abbia compiuto grandissime imprese alpinistiche è fuori discussione, ma ciò che ha fatto in questa occasione resta come l’imperitura memoria delle sue azioni.
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PIAZ GIOVANNI BATTISTA, detto “TITA” (1879-1948)
Grande guida delle Dolomiti di Fassa: aveva un carattere piuttosto rude. Il “Diavolo delle Dolomiti”, come viene scherzosamente soprannominato, per la temerarietà delle sue vie, è una figura di primissimo piano non solo dell’alpinismo trentino, ma di tutto l’alpinismo dolomitico del quale fu uno dei massimi protagonisti. A lui è stata attribuita l’invenzione del sistema di calata a corda doppia (più comunemente accreditata all’austriaco Hans Dulfer).
In Catinaccio, il 2 settembre 1899 scala da solo un ardito spuntone roccioso che sorge vicino alla Torre Delago, a guardia del Passo Laurino. Nella stessa estate sale il torrione invitto che si stacca dalla Cima del Catinaccio, e lo chiama “Punta Emma” in onore della sua compagna di cordata, Emma Dallagiacoma. Nel 1900 sulla stessa cima, appena ventenne e da solo, apre lungo la caratteristica spaccatura un ardito itinerario, il quale stabilisce il limite oltre il IV grado superiore, che diventa in seguito uno tra gli itinerari più classici del gruppo.
Nel settembre del 1901 sale sul Campanile Basso di Brenta con Franz Wenter, ed è il primo alpinista di nazionalità italiana a raggiungere la vetta. Le sue imprese in tutto l’arco alpino non si contano. Il 10 settembre 1947, a 68 anni, in una magnifica giornata autunnale, celebra le sue nozze d’oro col Catinaccio, salendone la cima. È il suo ultimo abbraccio.
Scrisse un libro di memorie: “A tu per tu con le crode” (Cappelli, Bologna, 1949).
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