di Renato Frigerio - Il 12 maggio 1993 moriva Zeno Colò l’indimenticato campione dello sci. Quest’anno ricorrendo il ventisettesimo anno della sua scomparsa, ci pare doveroso tracciarne un profilo se non altro per ricordarlo ai nostri giovani lecchesi che, forse, non ne hanno nemmeno sentito parlare.
Zeno Colò nasce in provincia di Pistoia il 20 giugno 1920 e già all’età di 4 anni suo padre gli mette gli sci ai piedi sulle nevi di Cutigliano, un piccolo paese dell’Appennino pistoiese. Trasferitasi poi la famiglia all’Abetone, Zeno ha la possibilità di inserirsi definitivamente nel mondo dello sci tanto da diventare tra i più forti discesisti del mondo. Aveva uno stile personalissimo, possedeva talento e in quanto a grinta non era secondo a nessuno. A 16 anni è chiamato a far parte della nazionale giovanile e nel 1940 vince la sua prima gara importante aggiudicandosi la libera della Paganella. Poi gli anni della seconda guerra mondiale fermano ogni attività sportiva ed è un vero peccato poichè Zeno, nel pieno della vigoria giovanile, si sarebbe sicuramente affermato con qualche anno d’anticipo. Viene arruolato nel corpo degli alpini e dopo l’8 settembre 1943 ripara in Svizzera, a Murren, dove può esercitarsi sulle montagne di Interlaken e gli viene appioppato il nomignolo di “Blitz” per la velocità con cui affrontava le discese. A guerra ultimata partecipa a gare nazionali ed internazionali. Nel 1947 vince la discesa del Kandahar e l’anno dopo, nella prova del chilometro lanciato, stabilisce il record di velocità toccando i 159,292 Km/h. (Il record precedente lo deteneva Leo Gasperl dal febbraio del 1934 quando sulle nevi di St. Moritz, in Engadina, aveva fissato la sua performance sui 135,690 Km/h). Ci fu anche chi definì l’impresa inutile e pazzesca, ma tantè.
Ormai Zeno sta avviandosi verso la trentina quando prende l’aereo per gli U.S.A. con destinazione Aspen (Colorado) dove sono in programma i Campionati del mondo. Ebbene, fu un trionfo: medaglia d’oro nel “gigante” e medaglia d’argento nello slalom speciale, lasciando il titolo iridato allo svizzero Georges Schneider per soli tre decimi di secondo. Nulla da dire: Colò in quel periodo era lo sciatore più completo e forte del mondo. Tornato in Italia si ritrova tra le mani una fiammante “500” (un omaggio della FIAT) e una miriade di festeggiamenti che gli sportivi tosco-emiliani avevano predisposto nella sua Abetone.
E pensare che negli Stati Uniti gli proposero contratti da nababbo perché restasse ad insegnare lo sci, ma lui ringraziò e se ne tornò sulle piste dell’Abetone a prepararsi per l’appuntamento olimpico di Oslo del 1952. Nel corso di quelle Olimpiadi si classificò al 4° posto sia nel gigante che nello speciale (ormai ha 32 anni) ma nella libera, naturalmente la gara che predilige, riesce ancora una volta a sbaragliare tutti. È il 16 febbraio 1952. Tagliato il traguardo allargò le braccia e disse: “Non si poteva andare più forte” e si pose ai lati della pista. Doveva ancora scendere il norvegese Stein Erikssen (l’idolo di casa) già vincitore dello slalom gigante e pertanto molto temuto, ma a metà gara era già in ritardo. Quando apparve in vista del traguardo le migliaia di spettatori presenti furono pervasi da un indicibile entusiasmo e cominciarono a sventolare bandiere fra gli applausi e un gran vociare. Ma nel momento in cui superò la fatidica linea di arrivo, il cronometro decretò la vittoria del nostro che era riuscito ad infliggergli un distacco di ben 3 secondi.
Zeno, nonostante l’età, era ancora competitivo ed avrebbe potuto collezionare altri titoli se non fosse incorso nella squalifica inflittagli dalla Federazione Internazionale per aver dato il proprio nome ad una marca di scarponi e ad una guaina. Ai mondiali del 1954 non potè quindi partecipare. Gli fu concesso, però, di fare l’apripista nella libera e ancora una volta mostrò tutto il suo valore: gli fu accreditato il secondo tempo assoluto, ma in tanti giurarono che era stato il più veloce. Alla fine del 1989 il C.I.O., la F.I.S. e gli organi competenti italiani annullarono tale squalifica che, forse, non gli ha consentito di raggiungere altri ambiti traguardi nonostante i 21 titoli italiani di cui è stato detentore.
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