Di Renato Frigerio L’alpinismo come attività ricreativa nacque in Europa, sulle Alpi che, per la loro estensione, la loro bellezza e la loro accessibilità, restano il fulcro dell’interesse degli appassionati di montagna. Però gli alpinisti si misero anche alla ricerca di altre montagne, di altre strutture verticali, particolarmente adatte alla loro formazione e alla loro passione.
Lo sviluppo dell’arrampicata su roccia come disciplina indipendente fece sì che ogni falesia e ogni parete venisse passata al vaglio, tanto che si può dire che oggi non sia rimasto un solo masso o affioramento di roccia in Europa che non sia stato preso in considerazione dagli scalatori locali.
L’americano John Bachar, nel 1981, così rendeva noto il suo punto di vista: “L’alpinismo è uno sport magnifico che permette agli uomini di trovarsi in situazioni difficili e di scoprire come superarle”. Nel libro “La morte del chiodo” (Zanichelli, 1983), scrisse molto bene Reinhold Messner: “L’alpinismo e l’arrampicata libera consentono, è vero, di esplorare l’ignoto, di dominare paure ancestrali, e di appagare il bisogno di emozioni e di sogni in contrasto con la vita programmata e già decisa da altri”. A proposito dell’evoluzione di questa determinata situazione, per definire la sua opinione ideologica, il francese Patrick Edlinger, al tempo, sintetizzava: “Arrampicata sportiva e alpinismo sono perfettamente complementari e danno a ciascuno le soddisfazioni che cerca”.
Qualche vecchio santone della montagna o esponente glorioso dell’alpinismo si è scandalizzato (e forse qualcuno, nello stesso tempo, definendo questa disciplina, atletica verticale, si scandalizza ancora), quando sono sorte le prime competizioni ufficiali di arrampicata sportiva: la profanazione dell’alpinismo, un’intollerabile contaminazione con lo sport agonistico.
“Le relazioni tra le due cordate erano quasi ostili”; - “…i due sarebbero stati vigilanti come cani da guardia e nel giorno favorevole non avrebbero certamente lasciato la precedenza a Peters”; - “…la pioggia picchia sulla nostra tenda con un rumore piacevole (piacevole, voglio dire, perché sappiamo così che neanche gli altri possono far niente in parete)…”; -
“…avendo saputo della nostra presenza, Kasparek e Harrer erano partiti il giorno stesso (qualche ora prima) per attaccare la parete”: queste frasi edificanti possiamo trovare nel libro di Anderl Heckmair, scritto nel 1948 e pubblicato in italiano a Bologna nel 1953, intitolato “I tre ultimi problemi delle Alpi”, ma dedicato principalmente alla prima della Nord dell’Eiger (3970m), compiuta dall’autore con Ludwig Vorg, Fritz Kasparek e Heinrich Harrer, nel luglio del 1938.
Che cosa c’è di più corretto ed onesto, tra una gara sportiva dichiarata, codificata, circoscritta da regole precise ed una competizione acre, nascosta, ammantata per lo più di ipocrisia e retorica, lascio a voi giudicare.
Negli anni trenta i tedeschi portarono anche nell’alpinismo lo spirito tardo-romantico, ormai decadente che ben si era fuso, insieme ai miti wagneriani e alla filosofia nietzschiana, nel nazionalsocialismo di Hitler. Un tragico fanatismo, unito al mito di una gioventù destinata ad un glorioso sacrificio (“Sacrificare così la propria vita, significa raggiungere il limite estremo, la forma più perfetta d’espiazione”, ancora Heckmair, citando un giornale dell’epoca), ha condotto gli alpinisti tedeschi nella seconda metà degli anni trenta ad un assalto violento e pressante alla Nord dell’Eiger, montagna, soggetta a repentini cambiamenti meteorologici, che domina Grindelwald, popolare centro turistico svizzero delle Alpi Bernesi.
Max Sedlmayer, Karl Mehringer, Andreas Hinterstoisser, Toni Kurz, Edi Rainer, Willy Angerer morirono anche per quella decorazione che Hitler aveva promesso a chi avesse vinto la grande parete triangolare concava alta 1800m , finchè Heckmair e i suoi compagni (“Noi, figli del vecchio Reich, uniti ai nostri compagni dell’Est, marciammo fino alla vittoria”, ma questa frase, citata dall’inglese Claire-Eliane Engel, specialista di storia e letteratura alpina, non si trova nel libro di Heckmair) non videro realizzato il desiderio loro e dei loro predecessori: furono presentati al Fuehrer, e questa fu, a loro dire, “la più bella ricompensa”.
Come detto, il libro si intitola “I tre ultimi problemi delle Alpi”, ma si incentra sulla scalata della Nordwand, la cui descrizione ne occupa circa i due terzi. Dopo una breve introduzione, riservata alla conquista della Nord del Cervino nel 1931, ad opera della cordata dei fratelli tedeschi Franz Xaver e Toni Schimd, e al tentativo dell’autore alle Grandes Jorasses al Monte Bianco, Heckmair traccia la storia dei primi tentativi all’Eiger e descrive poi dettagliatamente la sua scalata. Il tono è misurato, anche se traspare in più di un’occasione, l’atmosfera di rivalità e di competizione che regnava tra gli alpinisti dell’epoca.
Heckmair scrive il suo libro nel 1948, uscito in Germania: nei dieci anni trascorsi dalla conquista della Nordwand l’ideologia del nazionalismo tedesco di Friedrich Nietzsche è bruciata tra le macerie di Berlino e i “figli del vecchio Reich” sono stati costretti a smorzare di molto il loro orgoglio e il loro fanatismo.
Un’appendice descrive la scalata dello Sperone Walker sul Monte Bianco compiuta dall’autore nel 1947: l’impressione che si ricava dalla sua lettura è di una tristezza, come l’impresa caparbia di un “vecchio” che è e sa di essere ormai fuori dai giochi. Ed è significativo che Heckmair provi sorpresa nel vedersi, nel dopoguerra, accolto amichevolmente ed aiutato da Lionel Terray, da Maurice Herzog, dagli alpinisti francesi di Chamonix: questo, per un tedesco cresciuto alla scuola del Fuehrer, è veramente inconcepibile.
In fondo, non è un bel libro, questo di Heckmair, come non è una bella parete la Nord dell’Eiger, dove quasi ogni posizione della via del 1938 ha un nome che dà qualche indicazione sul percorso e sui problemi che comporta: la fessura difficile, la traversata di Hinterstoisser, il nido della rondine, il primo ghiacciaio, il colatoio ghiacciato, il secondo ghiacciaio, il ferro da stiro, il bivacco della morte, il terzo ghiacciaio, la rampa, lo strapiombo di ghiaccio, la cengia friabile, la traversata degli dei, il ragno e le fessure finali.
La sua conquista, unitamente a quelle della Nord del Cervino e delle Grandes Jorasses, ha segnato un punto di svolta epocale e simbolico nella storia dell’alpinismo, anche perché le imprese sono state compiute in un’epoca che preparava ben più importanti svolte nella storia del mondo. Nel dopoguerra ci vorranno solo la classe e la tempra intellettuale di Walter Bonatti per portare più avanti la frontiera dell’alpinismo classico. Dopo si apriranno nuove strade, divergenti, sui colossi dell’Asia, in Karakorum e in Himalaya, con alpinisti di talento, popolari e leggendari, quali Reinhold Messner, Jerzy Kukucka, Erhard Lorètan, Carlos Carsolio, Krzysztof Wielicki, solo per nominare i primi cinque conquistatori della corona dei 14 oltre 8000 e, sulle montagne di ogni continente o sulle falesie di ogni parte del mondo, ma le Alpi non saranno più il centro del mondo alpinistico.
Certo, si sale ancora sull’Eiger, ma, per fortuna, lo spirito non è più quello di Heckmair e dei suoi camerati. Ciò che è nato in Yosemite, California, ed è fiorito a Finale e Arco, e alle Calanques, sulle scogliere, sui massi di arenaria di Fontainebleau, e in Verdon, sulle grandi gole, apprezzate zone di arrampicata, in Francia, sull’onda lunga del ’68, ha fortunatamente pervaso anche la Nordwand.
In confronto tra queste parole di Heckmair: “…l’Eigerwand verrà attaccata e questa volta vinta. Il numero delle vittime è già troppo elevato, ed il loro sacrificio non deve risultare vano”; e queste altre del francese Jean Afanassief, che ha scalato la Nordwand nell’autunno del 1981: “Poiché trovo il casco antiestetico, nonostante la reputazione di friabilità della parete, non lo porto. Vogliamo essere leggerissimi per rendere piacevole il nostro viaggio sulla parete Nord”, danno la misura di quanta strada, in avanti abbia percorso l’alpinismo da quell’estate del 1938.
Anche in alpinismo, come accadde nello sci e nel ciclismo, esistono varie specialità.
Ma, a questo punto è anche giusto considerare che, il rischio nell’arrampicata è un grado psicologico molto importante, che si aggiunge alle difficoltà di grado fisico, caratterizzate nella classificazione tecnica, pur ammettendo che l’alpinismo senza rischio non esiste.
Come fare allora per cercare di comprendere gli obiettivi e le idee che stanno dietro all’alpinismo di oggi? Allora, ci sembra opportuno, ai nostri giorni e a conclusione riprendere, dal libro “L’assassinio dell’impossibile – Grandi scalatori di tutto il mondo discutono sui confini dell’alpinismo”, come alcuni di loro tra i più significativi, si esprimono con singolare e competente punto di vista, sullo sviluppo, sulla motivazione, e sullo stato attuale nel movimento di scalare le montagne e le pareti più difficili.
Maurizio Zanolla, chiamato Manolo, diventa confidenziale: “Quando a metà degli anni Settanta, ignorando qualsiasi cosa, ho incominciato ad arrampicare, i chiodi, a pressione o no, che incontravo sulle vie che decidevo di provare a ripetere, con la loro semplice presenza e garanzia di sicurezza mi hanno permesso di spingermi oltre più in fretta. Di poter osare di più”. …” Una ricerca libera e personale in un mondo e un alpinismo che spalancava ancora spazi e libertà alle idee; luoghi dove poterle cercare. Salire, seguendo l’ambizione, il più diritto possibile senza le protezioni sembrava una deviazione; lontana, cocciuta e contraria alla logica, ma ritenevo fosse l’unica scelta per avvicinarmi a nuove conoscenze. Sono fortunatamente riuscito a sopravvivere a quelle esperienze a volte pericolose, che però mi hanno concesso il privilegio di conoscermi e di arricchirmi come non sarei mai riuscito a fare altrimenti”.
Lo sloveno Marko Prezelj, diventa riflessivo: “Sono nato nel 1965, poco più di sei mesi dopo che Walter Bonatti, uno dei più forti scalatori nella storia dell’alpinismo, aveva salito in solitaria (dopo un tentativo con due amici) una via nuova sulla parete Nord del Cervino, via scelta per festeggiare il centenario della prima ascensione della montagna e come glorioso finale di carriera. Bonatti voleva scalare in solitudine. Il quinto giorno, quando arrivò a ergersi accanto alla croce di vetta, attorno alla montagna a bordo di aerei stavano già girando i giornalisti, gli stessi che poi lo attesero a valle con le telecamere e con le loro domande. Non potè sottarsi all’incontro con i media. Le varie riviste stamparono tra le immagini anche alcune di quelle prese direttamente in volo. La sete di storie di prima mano era chiaramente simile a quella dei giorni nostri” Dopo la scalata del Cervino, all’età di trentacinque anni, Bonatti si ritirò dal mondo delle scalate per diventare un giornalista e fotoreporter free-lance. In un’intervista rilasciata poco prima della sua morte disse: “Spesso eravamo soltanto io e la natura selvaggia per giorni e giorni; completa solitudine e nessuno che sapesse dove io fossi o cosa stessi facendo fino al momento del mio ritorno. Con telefoni cellulari e GPS, la dimensione della solitudine assoluta è del tutto scomparsa; perfino a metà di una salita di una montagna si rimane sempre connessi al mondo esterno e questo non è che sia bene o male, è semplicemente differente”. … “Fossero stati disponibili ai suoi tempi, Bonatti avrebbe scelto di usare i telefoni cellulari, le videocamere sul casco e i social media?”.
Simone Moro, afferma con convinzione: “Oggi esiste Geogle Earth, un occhio digitale sul pianeta che permette di vedere e studiare un luogo prima ancora di essere in condizione di guardarlo ed esplorarlo fisicamente, ma l’avventura e l’impossibile sono rimasti più che mai vivi. Si è diffusa una coscienza etica, una sorta di codice che, pur lasciando libertà assoluta d’azione, ha definito e rimarcato ciò che va descritto e celebrato come arte ed esplorazione e ciò che invece va considerato come puro esercizio ludico, ricreativo, turistico o sportivo”. … “Sono fiducioso e ottimista se guardo ai giovani. Sono forti, preparati, ancora felicemente spensierati e utopisti. Spero solo che continui la voglia di conoscere la storia e la cultura dell’alpinismo. Solo conoscendo ciò che è stato fatto si può individuare e intuire ciò che resta ancora da fare. Seppure sovraccarichi di tecnica e tecnologia, sarà sempre deputata agli uomini l’abilità, l’arte di esporsi e sopravvivere. È un esercizio necessario, perché quando l’uomo non avrà più voglia di esplorare ed esplorarsi, sarà arrivato il momento in cui si spegnerà la fiamma che alimenta l’evoluzione”.
Adam Ondra, della Repubblica Ceca, puntualizza: “Tornando a vedere il tutto dalla prospettiva degli anni Settanta, mi vien da pensare che sarebbe stato praticamente impossibile credere a una diversificazione nello sviluppo dell’arrampicata come quello attuale. Sono dell’opinione che questa sia davvero una gran cosa. Tutto dipende da ciò che si ha intenzione di fare: si può andare a scalare sugli spit o su protezioni veloci tradizionali; si possono salire vie sicure oppure vie pericolose; si possono affrontare boulder di pochissimi metri oppure si può scalare sulle grandi montagne del’Himalaya. E si può anche gareggiare. È però dimostrato che tutte queste discipline hanno un fattore in comune: infatti prevedono sempre libertà di spirito e di mente. Anche se alcune di esse, in realtà, garantiscono una maggiore quantità di avventura, mentre altre, magari, offrono soltanto la sfida con se stessi”.
L’americano Alex Honnold, valuta così la situazione: “Il conflitto tra l’arrampicata tradizionale e l’arrampicata sportiva è ormai terminato da tempo: l’arrampicata sportiva con protezioni a spit ha preso il sopravvento da anni. Adesso stiamo vivendo in un’epoca all’insegna dell’arrampicata nelle palestre indoor, dell’arrampicata sportiva, della sicurezza
e delle prestazioni atletiche. L’arrampicata è cresciuta, ha accettato le regole, è entrata a far parte della comunità atletica internazionale e sarà presente all’Olimpiade di Tokyo del 2020. L’arrampicata non è più dominio esclusivo di disadattati, ribelli e esploratori. No, ora è diventata uno sport vero, che prevede tanto allenamento, diete, prestazioni ai massimi livelli quanto una buona dose di avventura”.
Box: cenni biografici
Anderl Heckmair, classe 1908
Uno dei più importanti scalatori tedeschi del periodo prebellico, protagonista della cosiddetta “Scuola di Monaco”.
Heckmair crebbe in un orfanatrofio ed ebbe quindi vita dura fin dalla più verde età.
Divenne poi guardiano di un parco nei pressi del confine tra la Baviera e l’Austria.
Iniziò a scalare nel Wilder Kaiser negli anni ’20: principalmente proprio nel Kaisergebirge e nel Wetterstein, dove si recava in bicicletta per compiere le sue imprese.
Nel 1931 fece due tentativi sullo sperone Walker per la parete Nord delle Grandes Jorasses sul Monte Bianco; riuscì invece sui Grand Charmoz, dove aprì una importante variante diretta finale alla via di Willo Welzenbach sulla parete Nord.
Dal 1935 in poi si dedicò quasi esclusivamente all’Eiger, studiandone i pericoli e le possibilità di salita. Nel 1938, dopo il tentativo di Mathias Rebitsch e Ludwig Vorg durato 100 ore, i tempi erano maturi perché una cordata abile e preparata risolvesse finalmente il problema.
Heckmair e Vorg attaccarono il 21 luglio di quell’anno e superarono speditamente il tratto inferiore dove, per arrampicare su neve e ghiaccio, sono agevolati dai ramponi a dodici punte (di cui le due frontali sporgono in avanti ad angolo in modo che possano essere conficcate nel ghiaccio ripido), fino a che non raggiunsero i due austriaci Fritz Kasparek e Heinrich Harrer, che stavano faticosamente intagliando gradini di ghiaccio.
Harrer aveva solo gli scarponi chiodati e Kasparek i ramponi a dieci punte (su telai in acciaio che si applicano alle suole degli scarponi che hanno suole rigide).
Le due cordate si unirono in una e per comune accordo Heckmair, assunse il ruolo di capocordata, dimostrando eccezionale qualità di scalatore e un notevole valore alpinistico.
Fra le massime espressioni del suo tempo, dopo la cresta Sud dell’Aiguille Noire de Peterèy sul Monte Bianco vinta da Karl Brendel ed Hermann Schaller, la Nord del Cervino superata dai fratelli Franz Xaver e Toni Schmid, la Nord sullo sperone Croz delle Grandes Jorasses al Monte Bianco con Rudolf Peters e Martin Meier in vetta, pure la parete Nord dell’Eiger non rimaneva più inviolata e questa impresa, che di diritto va inserita nella storia dell’alpinismo, portò grande rinomanza e considerazione ai suoi vittoriosi protagonisti.
Heckmair, scrisse un libro: “Gli ultimi tre problemi delle Alpi (Cappelli, 1953).
Nota di redazione per la conquista storica
su una cima prestigiosa e grande parete delle Alpi.
La drammatica conquista del Cervino, una delle 82 cime oltre ai 4000 metri, è stata ampiamente narrata e perciò basta citare le fasi essenziali.
In questa emblematica occasione si verifica la rivalità e lo spirito della “gara” per arrivare primi su una vetta, addirittura con azioni simultanee, affrontando sia il versante svizzero e sia quello italiano, per due itinerari assai diversi!
Capitolava il Cervino, che era l’ultimo avamposto delle Alpi. La vetta fu raggiunta alle 13.40’ del 14 luglio 1865 da Nordest, affrontando la Cresta Hornli, da Zermatt. La prima ascensione guidata dall’inglese Edward Whymper toccò la vetta 3 giorni prima dell’italiano Jean Antoine Carrel in cordata con Jean Baptiste Bich, saliti da Sudovest. per la Cresta del Leone, da Valtournanche e dal Breui-Cervinia.
La storia della conquista del Cervino purtroppo ci pone di fronte, tra le prime, ad una grande tragedia. Del gruppo di Whymper, composto da 7 persone, soltanto 3 sopravvissero, gli altri, il francese Croz e gli inglesi Hadow, Douglas e Hudson, si sfracellarono sulla via di discesa.
Le sciagure in montagna con situazioni di questa dimensione, più volte accompagnate da relative polemiche, alimentate dall’interesse pubblico, nella storia drammatica dell’alpinismo, ebbero inizio proprio con questo primo lugubre evento in montagna di diffusa conoscenza, e con l’andar del tempo non si placheranno mai.
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