di Renato Frigerio Il nome di cui qui si fa memoria, viene rievocato riproducendo per intero il lungo articolo che era stato richiesto per conto dell’Annuario del C.A.I. di Bergamo, che infatti lo pubblicava nella sua edizione del 2009.
Ogni volta che in questa rubrica viene preso in considerazione uno speciale personaggio del passato, di lui si illustra per lo più un aspetto specifico della sua esistenza, portando l’attenzione quasi unicamente alle sue principali prestazioni nel campo dello sport. Con Daniele Chiappa queste, pur importanti e prestigiose, sembrano assumere una funzione secondaria rispetto alla totale dedizione con cui lui si è coinvolto nel servizio rivolto verso il Soccorso Alpino. Osserviamo infatti che questo impegno non ha preso luogo come una decisione sostitutiva dopo essersi reso conto che un’incidentale riduzione di efficienza fisica non gli avrebbe consentito di continuare l’attività alpinistica agli elevati livelli che gli erano stati abituali fino a quel momento. La passione per il Soccorso Alpino è nata in lui nello stesso istante giovanile in cui si è sentito attrarre dalla montagna ed ha iniziato a salirla da alpinista facendo passi da gigante.
Montagna, alpinismo, volontariato attivo e creativo nel Soccorso Alpino hanno rappresentato per lui i tre inscindibili ideali sui quali ha costruito la sua formazione e la sua crescita umana, distinguendosi attraverso questi in modo esemplare, fino al punto che oggi lo consideriamo un meraviglioso testimone.
L’articolo che ne aveva preso atto doverosamente, ed anche adesso sembra quasi invocare che persone come queste possano continuare a resistere nel tempo per trasmettere quei valori che loro hanno vissuto in pienezza.
UN VITA SPESA TUTTA PER LA MONTAGNA
di Renato Frigerio
La nostra vita incrocia talvolta, anche se raramente, persone stupende che, alle loro doti specifiche e alle loro qualità morali, abbinano un’istintiva capacità comunicativa, in grado di trasmettere luminosamente la bellezza dei loro ideali e di facilitarne la condivisione. Ce le troviamo accanto magari nella familiarità della frequentazione e dell’amicizia, mentre ne avvertiamo però in certo modo la loro superiorità: ma è solo quando di colpo ci vengono a mancare che comprendiamo pienamente la gravità della loro perdita.
Così è successo con la morte del nostro Daniele Chiappa, e così si capisce l’esplosione delle attestazioni di stima, di simpatia, di affetto che si è diffusa in tutta la città e che ha contribuito a riempire per più giorni le pagine di tanti giornali, non appena è pervenuta la tristissima notizia.
Si è scritto davvero tanto di lui, magari anche in forma ripetitiva, nel timore di aver tralasciato qualche cosa di importante che ci era sfuggito quando ancora lo frequentavamo. Ma adesso, a distanza del tempo immediato in cui il dolore, colpendoci con più forte intensità, riesce ad annebbiarci la mente, vogliamo ritornare a lui con animo
più disteso e sereno. Intendiamo soprattutto ricordarlo in modo un po’ diverso, anche se sarà inevitabile ripetere qualcosa che è già stato detto.
Per iniziare ancora una volta almeno con un cenno alla passione che ha dominato la sua esistenza, pensiamo possa essere utile e significativo ricorrere allo stralcio di un articolo che, in quanto preparato per presentare una sua serata che non potè mai aver luogo, non fu di conseguenza pubblicato. Questa serata era stata programmata nell’ambito di un ciclo impostato come incontro “A tu per tu con i grandi dello Sport”, e per lui che interveniva invece in veste di relatore sul Soccorso Alpino, era stata fatta un’eccezione, considerandolo come figura simbolica, vero campione, di una associazione in cui operano volontari valorosi e audaci. Si pensa ancora con malinconia a quella serata, che era stata anche da lui tanto attesa, e che non fu mai fatta: programmata per il 10 aprile 2008, era stata rinviata al 15 maggio proprio a causa delle condizioni fisiche di Daniele, non pensando certamente ad una evoluzione drammatica in questo senso. Si era tanto sperato che il suo intervento fosse ancora possibile e costituisse anzi il segno di un promettente miglioramento, ma la sua forzata rinuncia ci tolse definitivamente l’illusione di poterlo rivedere ad entusiasmare il pubblico con i suoi racconti.
Si scriveva comunque, tra l’altro, nell’articolo a proposito di quell’appuntamento inusuale e all’apparenza incoerente con l’impostazione del ciclo: “Anche se nella serata adesso programmata non mancheranno gli incontri “A tu per tu”, anche se ne sarà protagonista uno che cose grandi ne ha fatte tante in campo alpinistico, tuttavia ad emergere questa volta non sarà un ammirato campione, bensì qualcosa di diverso, che può giustificare la messa in discussione della linea di impostazione. A tener banco nel salone di Sirtori interverrà infatti l’immagine di una meritevole istituzione di volontariato, quella che svolge il suo impegno nelle operazioni del Soccorso Alpino, un’immagine che verrà comunque resa concreta dalla persona che di diritto viene riconosciuta come il simbolo dell’istituzione stessa e che, per l’occasione, si presenta circondato da uno stuolo di altri che, come volontari o professionisti, hanno prestato e continuano ad offrire in questo arduo compito una collaborazione ammirevole. Ci riferiamo a quel Daniele Chiappa che, a Lecco e non solo, è conosciuto troppo bene per dover ora tracciare ripetitivamente un suo ritratto. Basterà ricordare che, come alpinista, il “Ciapìn” è entrato nel novero dei più grandi quando, a 23 anni, facendo parte della spedizione dei Ragni al Cerro Torre, ne raggiungeva vittoriosamente la vetta, con la cordata di Casimiro Ferrari, salendo l’inviolata e terribile parete Ovest: una conquista che da sola qualifica per sempre chi nutre ambizioni alpinistiche. Come operatore nel Soccorso Alpino, si butta a capofitto nell’organizzazione già quando ha compiuto da poco i sedici anni, e ne sale velocemente tutti i gradini gerarchici, dove ormai gli manca solamente il prestigio della presidenza nazionale.
L’alpinismo, la montagna ed il Soccorso Alpino appunto rappresentano le sue più forti passioni, tutte abbracciate con tale intensità da uscirne trasformato in una specie di simbolo. In questa luce è pertanto atteso il suo intervento, richiesto da Sergio Longoni per un incontro che, prendendo spunto da lui, si rifletterà ancora più intensamente sul contenuto del libro che ha appena pubblicato, apparso con il titolo “Nell’ombra della luna”. Inevitabilmente, ma anche intenzionalmente, la figura di Daniele Chiappa dominerà lo svolgimento della serata, appunto perché, come personaggio duplicemente simbolico, gli ideali da lui rappresentati non potranno prescindere dal suo aspetto biografico, tutt’altro che scialbo e inconsistente”.
A differenza di quanto poteva lasciare intendere quest’ultimo periodo dell’articolo, Daniele ci ha lasciato un ben scarno curriculum della sua estesa e valida attività alpinistica e meno ancora ha dettagliato la sua biografia. Le poche notizie che leggiamo in tal senso nel suo “Nell’ombra della luna”, ci consentono però di immaginare molto di più di quanto lì ha scritto. Pensiamo che allo stesso modo possa viaggiare l’immaginazione seguendo il percorso circoscritto da quelle poche date dove per lui si concentrano gli eventi più significativi, quelli gioiosi come quelli dolorosi, i successi e gli importanti riconoscimenti. Nato a Lecco il 28 ottobre 1951, ultimo di sette figli, cresce in una famiglia di modeste risorse economiche, ma dotata di una identità dignitosa e ancorata fortemente ai principi religiosi tradizionali, cui ancora Daniele si riferirà con fiducia e speranza nel periodo terminale della sua malattia. Il suo rapporto con la montagna si instaura ben presto in modo chiaro e naturale, in questo certamente condizionato anche dal fatto che il fratello Robi è un alpinista appassionato ed affermato. È comunque sorprendente che ad arrampicare inizi quando è ancora un ragazzino di tredici anni: in quanto a precocità non è da meno neanche per il Soccorso Alpino, essendosi preso il privilegio di caricarsi sulle spalle la sua prima barella a soli sedici anni. La sua attività in montagna è fitta e importante, come quando nel 1971 affronta la spericolata via Philipp-Flamm sul grande diedro della parete Nordovest di Punta Tissi del Civetta: questa volta però un drammatico volo di oltre 70 metri gli fa sentire da vicino il gelido soffio della morte. Se la cava invece con la semplice, se pur dolorosa frattura del piede destro e del ginocchio sinistro. Il suo talento di arrampicatore non sfugge comunque agli ambienti competenti lecchesi, che nel 1972 gli conferiscono l’ambito onore dell’ammissione al prestigioso Gruppo dei Ragni della Grignetta. Il 13 gennaio 1974 si aggiudica un traguardo di importanza storica con la conquista della vetta del Cerro Torre per l’inviolata parete Ovest, nella leggendaria spedizione dei Ragni. L’anno successivo è gratificato di uno tra i riconoscimenti più ambiti e qualificanti, l’ammissione all’Accademico del Club Alpino Italiano. Il 1975 è l’anno in cui dovrà soffrire una tragedia tristissima, il cui ricordo costituirà un tormento che non lo abbandonerà per il resto della vita. Anche perché si sentirà sempre responsabile della morte di quel caro amico, un ragazzo di soli diciotto anni, con il quale aveva affrontato in cordata il tentativo di aprire una difficile via sulla Sud del San Martino. Quel volo, quello schianto, tutto quel sangue non potranno più cancellarsi dalla sua mente. Nel 1978 partecipa come socio fondatore a costituire il Gruppo alpinistico lecchese Gamma, dove condenserà il suo impegno alpinistico e la sua differenziata collaborazione nel segno della continuità della straordinaria tradizione cittadina. Nel 1983 un banale incidente sul lavoro gli procura gravi conseguenze che compromettono la pratica dell’alpinismo sui livelli da lui intesi, per cui gradualmente abbandona l’arrampicata, per dedicarsi con sempre maggior intensità e dedizione al Soccorso Alpino. Qui è davvero impossibile riassumere in date e cifre la quantità delle cose superlative che ha realizzato in venticinque anni di un impegno incredibile, portando tanto di suo, grazie anche ad un’esperienza pluriennale valorizzata da un’accorata passione e da un’intelligenza non comune. Se le innovazioni da lui apportate, se i miglioramenti da lui attuati sui procedimenti e sulle attrezzature in uso non possono essere conteggiati e descritti, fortunatamente ognuno cui oggi vi ricorre o ne beneficia, sa che a lui si deve riconoscere il giusto merito. D’altro canto, il ricordo del suo impegno responsabile e della sua estrema dedizione continueranno a trasmettere un esempio stimolante. Ci sembra quasi che tale ricordo lui stesso, forse presagendo ormai vicino il tempo in cui non avrebbe più risalito i ripidi sentieri della montagna per correre verso una vita che supplicava di venire salvata, lo abbia indicato come un testamento nel suo libro che parla di storie di Soccorso Alpino.
Ma già adesso che, come dire, l’abbiamo da poco perso di vista, sono molti quelli che, avendolo conosciuto ed essendogli stati amici, trovano conforto a ritornare a lui con il pensiero pieno di nostalgia e cercano in qualche modo di ritrovarlo là dove trascorreva in compagnia del suo gruppo di appartenenza i pochi attimi di libertà dai suoi numerosi impegni: è così che interpretiamo le prime testimonianze che pervengono ai Gamma e che consideriamo come un anticipo di una sua possibile ricostruzione biografica. Scorrendo alcuni di questi ricordi e riflessioni scritte, è possibile individuare nella loro successione i suoi diversi aspetti con chi l’ha visto muovere i primi passi sulla via dell’alpinismo, con chi gli è stato compagno nell’avventura dell’arrampicata, con chi invece ne ha condiviso l’impegno di far crescere l’organizzazione del Soccorso Alpino, e con chi infine, guardandolo in certo modo dall’esterno, è rimasto come folgorato dalla sua passione e dalla sua forte capacità organizzativa.
Lo rivede allora in questo modo Dino Piazza: “La prima volta che l’ho incontrato è stato quando ha frequentato la scuola di roccia del Gruppo Ragni. Il Claudio Corti ed io siamo stati i suoi primi istruttori per cinque uscite: ci siamo conosciuti là e subito siamo diventati amici. La sua voglia di imparare ci ha contagiato con il medesimo entusiasmo che si vedeva in lui. Lo abbiamo messo alla prova, e lo abbiamo visto reagire alla fatica, senza lamentarsi mai: abbiamo subito capito che la sua passione per la roccia e la montagna era davvero grande. La stessa cosa risultò chiara qualche anno più tardi con Casimiro Ferrari, che lo volle con sé nella spedizione al Cerro Torre, scegliendolo poi per la squadra dei quattro che avrebbero raggiunto la cima. Dopo quella fantastica impresa, quelle poche volte che mi capitava di incontrarlo non mancavo mai di chiedergli: “Ti ricordi ancora del Cerro Torre?”. La risposta era immancabilmente la stessa: “Tutti i giorni, e questo mi aiuta a risolvere i problemi che sorgono nella vita: una grande esperienza, una grande conquista”.
Giorgio Spreafico va ad indagare per trovare il fondamento su cui ha costruito la serietà del suo impegno e il suo senso di responsabilità: “Più di ogni altro lecchese della sua generazione, Daniele aveva colto appieno il senso profondo e, in qualche modo, il dovere della testimonianza. “Ciapìn” era un contemporaneo vero, con le mani e i piedi affondati nel nuovo, ma era anche un reduce. Veniva dalla stagione in cui i ragazzi dovevano crescere in fretta, e infatti crescevano bruciando le tappe, corazzandosi alle difficoltà della vita, prendendosi pedate nel sedere e caricandosi in spalla responsabilità.
Bambini-uomini, che non a caso erano presto pronti a vivere anche la montagna più dura ed estrema, dalla quale i coccolati giovani dei nostri giorni girano larghi. Di quel mondo e delle stagioni memorabili che sono seguite, Daniele è stato dunque un testimone credibile e instancabile. Non camminava per questo con la testa rivolta all’indietro. Il suo era un richiamo costante all’identità, alla necessità di sapere di chi si era stati per conoscersi davvero e per decidere consapevolmente cosa si voleva diventare. E lui non perdeva occasione per svelare la gioia che la montagna gli aveva regalato, convinto che lo spot fosse vincente per dare continuità a una tradizione certo da innovare, ma in primo luogo da non lasciare colpevolmente inaridire. Tutto spiegato con l’impegno in prima persona e con una generosità toccata con mano da centinaia di alpinisti, in primo luogo, ma non solo, lecchesi”.
Sul tema dell’arrampicata a parlarne, tra gli altri, è Gianni Stefanon, che con lui si era legato per aprire una via quando Daniele era poco più che ragazzino: “Era il 7 luglio 1968,
ero in fermata dopo il terzo tiro di una via nuova in Grigna, contento perché le difficoltà erano finite, ma nel recuperare le corde queste avevano mosso alcuni sassi e uno era caduto, andando a colpire il mio compagno, 45 metri sotto. Alcuni giorni dopo, il “Giornale di Lecco” scriveva: “Sullo spigolo Sudsudovest della Mongolfiera in Grignetta è stata aperta una via dedicata a John e Bob Kennedy. In quattro ore di effettiva arrampicata, da Gianni Stefanon e Daniele Chiappa (16 anni), entrambi del C.A.I. Belledo, ecc. ecc.”. Seguiva una sintetica cronistoria e descrizione della salita. Quello che aveva fatto più notizia era proprio la giovane età di Daniele, che arrampicava già da tre anni ed aveva una gran voglia di fare strada in montagna. Daniele mi era stato indicato dal fratello Robi, con il quale alcuni mesi prima avevo tentato invano la stessa via, lodandone contemporaneamente la bravura, la determinazione e la fame di nuove esperienze. Le circostanze imprevedibili della vita hanno poi diviso le nostre strade, impedendoci di frequentarci come ci sarebbe piaciuto. Pure a distanza di tanti anni, io me lo ricordo bene Daniele: allora piuttosto irriverente, a volte sfrontato nei confronti dei compagni più anziani.
Si attirò certamente anche delle antipatie, ma crescendo maturò e venne fuori l’uomo dallo spirito buono, il suo altruismo fu esercitato in particolare con l’attività pluriennale svolta a favore del Soccorso Alpino. La sua capacità organizzativa è stata più volte riconosciuta. La sua voglia di conoscere, d’inventare, di affrontare nuovi problemi e sfide, di migliorare e maturare, in una parola di crescere è stata una costante nella sua esistenza fino all’ultimo, e questo finale tragico ce lo ha confermato come uomo coraggioso, che non si dà per vinto e che continua a lottare fino a quando le forze glielo permettono. Oggi, a così poco tempo dalla sua partenza, un senso di commozione mi prende quando penso a tutte quelle volte che l’ho incontrato sulla mia strada”.
Sandro Pellegatta è la persona che più gli è stato vicino nell’impegno che ha dedicato al Soccorso Alpino e che con lui ha decisamente collaborato per far nascere a Lecco il Centro Operativo dal C.N.S.A.S. In una ipotetica lettera che indirizza direttamente al Paradiso, dove immagina un Daniele ancora attento alle cose di quaggiù, Pellegatta lascia trasparire l’alta considerazione che gli riservava e manifesta in chiari termini i meriti e la parte preponderante di Daniele nella trasformazione del Soccorso Alpino: “…Verso la metà degli anni ottanta, quando tu eri vicepresidente nazionale del CNSAS, insieme a Gino, al sottoscritto e pochi altri vagheggiavamo circa l’istituzione di una organizzazione che avrebbe dovuto coordinare sul territorio provinciale il servizio di urgenza ed emergenza sanitaria con il supporto di elicotteri medicalizzati. I più benevoli ci consideravano pazzi. I vari enti di Soccorso sanitario gestivano i loro orticelli in una logica tutta italiana del vivi e lascia vivere. Anche il Soccorso Alpino, a quei tempi, non era tanto diverso. Tu, che sei sempre stato avanti almeno due decenni nell’ideare ed immaginare scenari che ora fanno parte delle quotidianità, andavi regolarmente “in bestia” affrontando queste problematiche con personaggi che, al massimo, arrivavano ad immaginare ciò che avrebbero dovuto fare la settimana successiva. L’incidente aereo della Conca di Crezzo segnò comunque una svolta. In quella sera piovosa dell’ottobre 1987…, tu, da un posto di fortuna al Bione, a Lecco, dirigevi con ferma determinazione le operazioni di terra ed aeree. Finita la vicenda, dopo un lucido esame di tutto ciò che aveva funzionato e ciò che non aveva funzionato, giungesti alla conclusione che bisognava, senza indugio, costituire un Centro Operativo per il Soccorso Alpino, organizzato in modo da fronteggiare gli interventi non solo sulle montagne lecchesi, ma sulle montagne di tutto il territorio provinciale. Apriti cielo! Le varie stazioni del CNSAS insorsero, vedendo pregiudicati i loro interventi territoriali da una squadra proveniente da Lecco. Ovviamente era un falso problema. Grazie a te, nacque il Centro Operativo di Lecco del CNSAS. Altri seguirono a ruota in Lombardia, in Piemonte, nel Veneto, in Trentino Alto Adige ed infine anche in diverse località dell’Appennino. Non era ancora abbastanza: negli anni ottanta il supporto degli elicotteri per gli interventi in montagna era garantito dal S.A.R. di stanza a Linate. Quanti interventi, quante esercitazioni: e tu che pretendevi sempre il massimo per garantire l’eccellenza negli interventi. Ma non bastava ancora: ci volevano elicotteri medicalizzati, con un equipaggio formato da un medico rianimatore e da un paramedico. Anche quel servizio vide la luce: e i cittadini ora ringraziano”.
La lettera prosegue con un lungo elenco di altre, progressive e importanti iniziative, per le quali i cittadini ancora ringraziano: pur non conoscendo quanto il tutto è costato a Daniele, che per amore del suo Soccorso Alpino ha sacrificato tanto della sua vita, giungendo perfino a trascurare sovente la sua vita privata e i suoi affetti più cari.
Ci manca ancora di ascoltare chi Daniele ha avuto modo di incontrarlo in un breve tratto della sua vita, al di fuori degli ambiti suoi propri, in una conoscenza in certo modo tangenziale, eppure sufficiente per far sorgere simpatia e ammirazione. È il caso di Luca, un giovane universitario, che non ha esitato a testimoniare quanto sia stato affascinato dalla figura carismatica di Daniele: “Ho avuto la grandissima fortuna, grazie all’amicizia di papà, di essere stato spesso presenza indiscreta al fianco di Daniele, non come persona di montagna, ma vicino al mondo della montagna, che tanto permeava la sua figura, le sue azioni, i suoi discorsi. Durante queste frequentazioni ho maturato progressivamente la consapevolezza che avrei potuto apprendere molti insegnamenti che mi sarebbero serviti, crescendo, nella vita quotidiana. E così è stato. Daniele, uomo dalle indiscutibili e riconosciute capacità organizzative coniugate con la sua genuina determinazione nel sentirsi sempre e comunque parte di una squadra, era un leader indiscusso, un trascinatore, un innovatore, un comunicatore. Nonostante ciò non si è mai innalzato in modo superbo per ambizione personale. Aveva una capacità innata di tramutare in realtà le sue idee innovative, con ferma determinazione e spesso contro il comune pensare. Era in grado di catturare gli entusiasmi delle persone affinchè le energie venissero accelerate e proiettate nel risultato finale. Gli appassionanti racconti del Cerro Torre, della Grande Cattedrale del Baltoro, l’epopea dell’Elisoccorso, le storie di Soccorso Alpino – narrazioni intercalate dalle immancabili espressioni nel vernacolo di Laorca – sono diventati oggetto di lezioni in prestigiosi master universitari, perché tutti potessero trarre insegnamento da esperienze così significative. La dimensione e la grandezza di Daniele sono misurabili dalle tracce che ha lasciato nell’ambiente alpinistico e nel mondo del volontariato. Ma Daniele ha lasciato un segno indelebile anche in tutti quanti hanno avuto semplicemente la fortuna di conoscerlo. Sono quei valori incarnati da un “grande uomo” che ha sempre agito lontano dal clamore, che non si è mai fermato di fronte a nulla, e di cui sentiamo già una grande mancanza”.
Daniele se n’è andato nella mattinata melanconica del 30 agosto 2008: una data che mai più potrà passare nell’indifferenza, per chi ama la montagna, perché la montagna quel giorno è stata privata di un uomo generoso e altruista, che per lei non si è mai risparmiato, che per lei ha speso qualcosa di sé ogni giorno della sua vita.
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