Nota introduttiva – Il presente testo è parte di una ricerca storica più ampia sul San Genesio, realizzata intorno al 1990, ma che non ha poi avuto pubblicazione con un programma editoriale previsto di ampio respiro su tutto il territorio della Brianza oggionese. E’ ancora di attualità la parte che viene ora pubblicata, relativa alle vicende del 1985.
di Aloisio Bonfanti Era il luglio 1985 quando il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, con il bastone degli antichi romei, salì pellegrino lungo il tracciato stradale verso il San Genesio. Quel giorno un cardinale arcivescovo della diocesi ambrosiana tornava verso l’eremo monastico dopo il 1912 quando era giunto il cardinale Andrea Carlo Ferrari. Il vento del tempo aveva soffiato impetuoso 73 anni, con due spaventose guerre mondiali, con mutamenti epocali nella scienza e nell’industria, nei mezzi di trasporto e di comunicazione, nelle mappe geopolitiche non solo nell’Europa, ma nel mondo intero.
Accolto presso la chiesetta di San Materno, in località Cagliano, il cardinale Carlo Maria Martini partì per la “scarpinata” al monte. Era accompagnato dalle penne nere del gruppo ANA “Il campanone”, dal decano delle pieve don Lindo Fassi, parroco di Dolzago, dal clero della zona, da autorità civili e militari con i carabinieri della stazione di Oggiono. Era seguito da una “coda” di residenti, villeggianti, turisti. Era un pomeriggio di sabato con un bel sole estivo. Il cardinale passò sulla strada che scavalca a monte il santuario Madonna del Sasso: “Vede la chiesetta, profumata viola in verde prato, dal costone del Genesio protetta”, come recita una poesia di don Vincenzo Bonacina, parroco di Nava, uscita nella raccolta edita da Cattaneo nel 1983.
All’eremo di San Genesio il cardinale venne ricevuto da Antonio e Paolo Cattaneo, titolari della proprietà; entrò nel piccolo cortile, dove per due brevi scale laterali si sale al sagrato della chiesetta di San Giuseppe; invitò i presenti alla riflessione, al silenzio, facendo tesoro di una testimonianza ancora viva di monachesimo, impostato sulla “Lectio Divina”, la lettura lenta e meditativa della sacra scrittura. Martini lasciò l’eremo nel tardo pomeriggio, con una breve sosta a Ravellino, incontrando il parroco don Silvio Galizzi. Lasciò Ravellino per Lomagna dove si raccolse in preghiera nella camera ardente del parroco don Alfonso Ferraresi, scomparso il giorno precedente. DOn Alfonso era stato per diversi anni coadiutore a Civate ed insegnante di religione all’Istituto Parini di Lecco, ancor nella vecchia sede di via Ghislanzoni.
Alla sera del 13 luglio 1985, una lunga pagine di storia si chiudeva: è passata tra le visite del cardinale Ferrari e del cardinale Martini. Rimase un comune cammino di fede e di devozione, manifestato dai gesti semplici di tanta gente che hanno collocato cuori di “grazia ricevuta”, sopra i banchi di preghiera del coro dei monaci e sotto la statua di San Giuseppe, “celeste nube” sollevata dai grappoli festosi di angioletti sorridenti nei cieli dei beati.
Fra i cimeli conservati all’eremo il drappo stendardo portato sui sentieri di collina, tra rami carichi di foglie nella stagione più rigogliosa, il 26 agosto 1946, dalla compagnia filodrammatica “La Cenerentola” di Milano, una filodrammatica che, è scritto nel documento che accompagna il drappo, “si affida con fede e devozione al celeste patrono San Genesio”.
La prima comunità di cinque monaci era salita al San Genesio nel 1863. L’antica costruzione si era rivelata insufficiente ad accogliere una vita religiosa intensa, con diversi incontri quotidiani, di raccoglimento e meditazione. Ma c’erano altri problemi intorno al monastero: occorreva un muro di cinta claustrale per raccogliere il perimetro di vita eremita e cenobitica. Con il muro si realizzava pienamente un’oasi di preghiera, di ricerca spirituale e si costituiva un ordine preciso anche per campi, orti, boschi, che circondavano l’eremo, affidato al lavoro dei monaci.
Il complesso andava potenziato nelle strutture. Le celle erano state arredate con esemplare semplicità e modestia; sufficiente per consentire al monaco di vivere, pregare, fare letture, riposare, cenare. I pasti venivano preparati nella cucina comune, ma consumati quasi sempre solitariamente in cella. Erano caratterizzati da sobrietà e semplicità; lo scopo della vita eremitica è la preghiera, il vivere continuamente nella presenza di Dio, anche nelle ore destinate alle quotidiane faccende.
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