Nota introduttiva – Il presente testo è parte di una ricerca storica più ampia sul San Genesio, realizzata intorno al 1990, ma che non ha poi avuto pubblicazione con un programma editoriale previsto di ampio respiro su tutto il territorio della Brianza oggionese. E’ ancora di attualità la parte che viene ora pubblicata, relativa alle vicende del 1940, ottanta anni or sono, intorno all’eremo di San Genesio sul Colle Brianza.
di Aloisio Bonfanti Perché i monaci lasciano nel 1940 il San Genesio? Il capitolo generale della Congregazione aveva assunto la decisione, constatate le necessità di sacerdoti in eremi più fiorenti e le difficoltà economiche della comunità di San Genesio; difficoltà accentuate con il divieto ai monaci-sacerdoti di operare nelle parrocchie vicine, per Messe, funerali ed altre celebrazioni.
C’era stata qualche “incomprensione” con alcuni parroci brianzoli per il ministero dei monaci nell’ambito pastorale. Le risorse dell’eremo perdevano, così, una quota di contributo determinante per sostenere la comunità.
Si apriva, con la partenza dei monaci, il problema della conservazione del complesso monastico. Il 1° giugno 1940 Antonio Cattaneo, di Oggiono, con il fratello Carlo, assumeva l’affitto e la custodia dell’eremo, impegnandosi a mantenerlo in modo decoroso: a suo carico le ordinarie riparazioni murarie, con speciale attenzione ai tetti per evitare infiltrazioni di acqua.
Affiorava anche l’interdetto diocesano; una comunicazione che, su disposizione del cardinale Ildefonso Schuster, il parroco di Giovenzana, don Riccardo Corti, rendeva nota il 21 giugno 1940. E’ conservata nella biblioteca del San Genesio, tra volumi di teologia ed ascetica. San Genesio, si può leggere nel documento “senza i camaldolesi, perde i suoi privilegi di tempio regolare”.
Era scoppiata la guerra anche per l’Italia, il 10 giugno 1940; c’erano le chiamate alle armi, le prime notizie dal fronte francese, le prime vittime. Scese il silenzio sull’eremo, c’erano altri problemi, pensieri, sofferenze. Antonio Cattaneo affidava la custodia alla solerte famiglia di un contadino di Campsirago, Natale Pizzagalli. Sarà, questo ultimo, un silenzioso protagonista di quella catena di umana solidarietà verso i prigionieri di varie nazionalità e che, dopo l’8 settembre 1943, cercavano anche sul Colle di Brianza i sentieri verso la libertà.
In quel settembre 1943 non vi furono solo prigionieri alleati fuggiti dal campo vicino a Ponte San Pietro a percorrere i sentieri di Colle Brianza; c’erano ebrei, perseguitati politici che dovevano espatriare di fronte al dilagare delle truppe naziste in Italia, e la restaurazione del fascismo con la Repubblica di Salò.
“In quei mesi – ricordava Luigi Brambilla, già sindaco di Rovagnate, impegnato nei volontari della libertà, con il nome di battaglia “Luis paulott” – abbiamo visto decine e decine di prigionieri di ogni nazionalità, passare nei nostri paesi della Brianza, dove la gente cercava di aiutare questi giovani, dando loro vitto, vestiti, ospitalità per qualche ora di riposo. Molti riuscirono a varcare il confine verso la libertà. Giunti ad Olgiate o Rovagnate lasciavano il fondo-valle, la strada da Bergamo a Como; era battuta da pattuglie e posti di controllo, salivano verso i sentieri del Colle Brianza, in direzione Giovenzana, Nava, Ravellino. Erano ancora tracciati di sentieri, mulattiere, non le strade carrozzabili che sono state costruite nel dopoguerra 1945”.
Prigionieri inglesi in fuga arrivarono, probabilmente, sino all’eremo di San Genesio e vennero aiutati dal custode Natale. L’interessato ha mantenuto un rigoroso silenzio, ma negli anni ’50 inglesi sono tornati in zona per ringraziare della collaborazione avuta, a nome dei reduci delle 4^ Armata britannica del generale Alexander. In questa armata si erano arruolati volontari i due giovani spagnoli passati per le armi il giorno 11 ottobre 1943 alla baita Pessina, sopra Giovenzana.
Erano prigionieri vicino a Bergamo: fuggirono l’8 settembre. Seguirono il tracciato di molti altri: arrivarono a Giovenzana con cinque militari inglesi. Questi ultimi trovarono alloggio clandestino in paese; i due spagnoli in un piccolo rustico di proprietà parrocchiale, in località Pessina. Il parroco di Giovenzana, don Riccardo Corti, invitò la popolazione ad esercitare le opere di misericordia.
La presenza di stranieri non passò inosservata: i controlli erano divenuti sempre più frequenti: scattò il rastrellamento, la baita venne circondata ed i due militari catturati ed uccisi; Giovenzana subì la minaccia di essere incendiata per ospitalità a prigionieri in fuga. E’ stato il parroco don Riccardo a supplicare di risparmiare il paese dalla distruzione, assumendo la responsabilità di aver aiutato militari alleati.
Il nucleo abitato di Giovenzana fu risparmiato, ma il parroco venne deportato nel terribile campo di Mauthausen; dopo 17 mesi di prigionia verrà “graziato” per intervento del cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano.
L’eremo di San Genesio non fu investito dal rastrellamento dell’ottobre 1943; il dramma della guerra, della distruzione non sembrava arrivare in alto, vicino alle “casette” che avevano visto i monaci; transitavano sul colle solo cacciatori e taglialegna. Era oasi di pace, che tale, però, poco rimase. Da San Genesio si vedevano i tremendi bombardamenti notturni su Milano, che alzavano nel cielo lingue apocalittiche di fuoco e di fiamme. Giunsero anche a Nava, Ravellino, nelle frazioni vicine, anche in cascine e fienili, gli sfollati, i colpiti di Milano bombardata. Su un milione e mezzo di abitanti almeno 300.000 cercarono tetto altrove dopo i violentissimi bombardamenti a tappeto.
Casolari isolati e tende nei boschi del colle videro nuclei partigiani, accampati in fase organizzativa, in attesa dell’operativa, I controlli arrivarono anche a San Genesio; pattuglie salirono dall’alpe sopra Ravellino, raggiungendo la vetta del Crocione, dove obbligarono un contadino ad indicare il sentiero sul crinale del colle verso l’eremo monastico. Il custode Natale consigliò Antonio Cattaneo di spalancare finestre e porte delle casette dell’eremo, per far capire che nessuno era nascosto per l’imboscata. Ma qualche colpo a fuoco deve essere stato sparato: l’angelo segnavento che vola, a bandiera, sul fianco della croce terminale del campanile della chiesa di San Giuseppe è perforato da segni di pallottole.
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