“Un uomo come lui non può essere dimenticato. Lo può perdere invece proprio la sua città, quando i ripetuti ricambi generazionali avranno preso il sopravvento”
“Chi vive avendo nel cuore la passione per l’alpinismo non potrà mai cancellare dalla propria mente la figura carismatica di Carlo Mauri, anche se pensare a lui è come riaprire ogni volta una ferita dolorosa. Ciò accade con più intenso rimpianto proprio in maggio.
Era infatti il giorno 31 di questo mese - l’anno è il 1982 - quando la notizia della sua morte raggiunse la moltitudine di persone che l’avevano conosciuto, ammirato e del quale avevano subìto il fascino. Trentotto anni richiamano senza dubbio un’attenzione speciale e richiedono un più incisivo ricordo di una persona che tanto si è distinta nell’alpinismo e nell’esplorazione, che tanto ha donato alla montagna, che con tanta passione si è rivolto alla gente più bisognosa di comprensione nelle regioni più povere del mondo”.
Così il lecchese Renato Frigerio, appassionato di alpinismo e in generale di montagna, introduce il ricordo di Carlo Mauri, classe 1930, appunto nei giorni dell’anniversario della sua morte.
In segno di affettuosa riconoscenza e per l’amicizia che li legava al “Bigio” alcuni tra i fondatori del gruppo alpinistico lecchese dei Gamma dedicano a Carlo Mauri il sentito ricordo che di seguito pubblichiamo:
“Tanti sono ancora i “sopravvissuti” che l’hanno avuto come compagno di arrampicata, o che ne sono stati semplicemente allievi in ogni senso. A 38 anni dalla scomparsa, Mauri vive negli occhi e nel cuore dei lecchesi, come fosse soltanto assente per una delle sue spedizioni di montagna o di esplorazione. Quante volte ne abbiamo salutato la partenza e poi siamo rimasti a lungo senza sapere più nulla di lui ma per nulla preoccupati, tanta era l’abitudine di sapere che la sua lontananza da Lecco si sarebbe conclusa con un rientro vittorioso.
Forse non ci aspettiamo più di rivederlo, adesso, ma la sua figura e il suo atteggiamento non sono ancora ricordi sbiaditi per noi che l’abbiamo conosciuto e amato. E ora che il tempo ha inevitabilmente attutito il dolore per la sua perdita, ci sembra di rivederlo innanzi a noi ancora più nitidamente e, man mano che rammentiamo tanti particolari della sua vita e del suo carattere, ci accorgiamo di conoscerlo anche di più, in modo sempre più profondo.
Un uomo come lui non può essere dimenticato. Lo si può invece perdere e lo può perdere, purtroppo, proprio la sua città, quando i ripetuti ricambi generazionali avranno preso il sopravvento. Se scriviamo di lui è perché ci preme che ciò non avvenga, o almeno speriamo che ciò non accada.
Nel veloce mutare delle cose, quanto di bello e di buono se ne va perso! Perdiamo tradizioni in ogni campo: da quelle dei giochi dei ragazzi a quelle dei cibi che allietano la nostra tavola, addirittura la conformazione topografica di tanti rioni, per non parlare della ricca fauna ittica del nostro lago. Non possono però sparire i valori e ciò sembra più facile se lo si fa presentando concretamente le persone che sono vissute incarnando quegli stessi valori.
Perdere a Lecco il ricordo di Carlo Mauri significherebbe impoverire la città. Non sono tanto le sue tappe di mitico alpinista o di intrepido esploratore a fare di lui il personaggio che ha affascinato più di una generazione. Mauri si è imposto per una personalità rara, di quelle che non lasciano indifferente nessuno e che fanno sentire fortunato chi vi può attingere.
A lui ci si avvicinava la prima volta con curiosità o con l’ambizione di poter poi raccontare agli amici: “Ho parlato con il Bigio”. Troppo grande era la sua fama di alpinista, di conquistatore leggendario della montagna. Ma dopo aver parlato con lui, soprattutto dopo averlo sentito parlare, ci si rendeva conto che in lui l’alpinista era soltanto la punta dell’iceberg: quanto c’era dietro era una forza tutta da scoprire. Dalla sua prorompente carica di simpatia e cordialità traspariva la sua profonda sensibilità e la sua umanità.
Il suo racconto di avventurose conquiste era il modo per richiamare a sé e per far comprendere agli altri che l’obiettivo che contava, nell’affrontare e nel superare le pareti più strapiombanti e pericolose, non era il risultato atletico in se stesso ma la gioia di scoprirsi ogni volta diverso. Quando scalare diventava più difficile, per lui quello era il momento in cui la volontà e la fede divenivano gli elementi capaci di sovrastare i muscoli e la forza fisica.
Dall’entusiasmo con cui contagiava chi lo stava ad ascoltare mentre narrava delle sue scalate, non ci voleva molto a comprendere che per lui l’alpinismo era il mezzo per realizzarsi e esprimere la carica spirituale che gli esplodeva dentro, come lo è la musica o la pittura per un artista. E ciò spiega come niente potesse fermarlo e come mai si adattò alla resa, nemmeno quando gli si abbatterono addosso le ben note tremende situazioni che avrebbero stroncato chiunque non fosse stato sorretto da quella luce interiore che lui possedeva.
Questo spiega anche la sua continua, progressiva maturazione, che gli consentì di approdare senza problemi a obiettivi nuovi e diversi, costretto da una disgrazia che lo menomava fisicamente. Ma non fu forse nemmeno una costrizione quella che a un certo punto lo portò ad aprirsi verso la conoscenza di un’umanità diversa da quella che è divenuta la nostra, contrassegnata dal progresso e da una civiltà imposta.
Un’umanità che trovò subito più vera e più consona al suo animo di eterno ragazzo: e che lui trovò nei popoli primitivi che andò a conoscere nell’impervia Amazzonia, o nel deserto dell’Australia, o nei piccoli villaggi che incontrò nel suo lungo viaggio sulle orme di Marco Polo.
Affascinato, ne esaltò in modo convinto il permanere intatto delle virtù umane e scoprì in esse tradizioni e costumi per nulla inferiori ai nostri. La conoscenza, sempre più approfondita, di quei popoli e di quelle razze gli ispirò sentimenti di fiducia, di tolleranza, di simpatia e di amore verso l’uomo in genere. Da qui è breve il passo per arrivare al desiderio e all’impegno personale, perché quei sentimenti potessero diffondersi senza alcuna limitazione. Lo si legge nelle pagine del suo diario: “Le barriere tra gli esseri umani sono destinate a cedere, ma non basta scambiare i prodotti o attraversare le loro terre per capire i nostri simili. Perché le barriere cadano è necessario capire e per capire occorre affrontare l’uomo, formatosi in civiltà diverse dalla nostra, con tolleranza, con amore e desiderio di comprenderlo”.
Disgrazie, malattie, rinunce forzate sono stati gli “ingredienti” che hanno dominato la seconda parte della vita di Carlo Mauri. Ancora una volta siamo di fronte a un aspetto incomprensibile del destino, ma se riteniamo che nella storia dell’uomo il caso si può scrivere anche a lettere maiuscole allora non ci può sembrare strano che il “Bigio” abbia accolto anche questo “caso” amaro, accettandolo senza ribellione e facendone un mezzo per la sua crescita personale.
Chi più di altri gli è stato vicino fino agli ultimi giorni ha potuto avvertire il senso quasi sacro di questa crescita, che si manifestava nella sua ampia apertura verso l’uomo, nella sua ferma fede negli ideali di onestà, di amicizia, di valorizzazione della cultura, della tradizione, della religione: proprio quegli ideali che sembrano smarriti nel tempo del trionfo dell’interesse materiale e del vano apparire.
Di Carlo Mauri ci rimane l’immagine di un uomo dallo sguardo limpido e forte, aperto e semplice, come quello rivelato dagli occhi di chi la sua ricchezza l’ha nel cuore.
Vorremmo allora che queste righe contribuissero a conservare in tutti i suoi concittadini il suo prezioso ricordo e costituissero uno stimolo a conoscerlo più a fondo, per scoprirlo nella sua reale grandezza”.
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