Nella testimonianza del comandante della 89.ma Brigata partigiana alcune pagine tra le più tragiche della lotta di Resistenza
Era il 1991 e Lino Poletti, che fu comandante della 89.ma Brigata Poletti, incontrò gli alunni delle scuole di Mandello e Abbadia Lariana per raccontare loro la sua esperienza partigiana e rievocare alcune tra le pagine più significative della lotta partigiana combattuta sul territorio mandellese. Quella che segue è la trascrizione della sua testimonianza registrata dagli stessi alunni incontrati da Poletti.
“Il mio gruppo di comando comprendeva il territorio dai Piani Resinelli alla Valsassina. Era la 89.ma Brigata Poletti, non per il mio nome ma per quello di mio fratello e di mio cugino, che furono uccisi. Le prime azioni di resistenza furono condotte in modo disorganico, non si sapeva bene cosa fare. E quando chiesi al comando come dovevo agire, il colonnello mi rispose di farlo intelligentemente.
Battaglia dei Resinelli e di Erna, prigionieri e rifornimenti
Il 17 settembre 1943 c’è stato un grande rastrellamento tedesco ai Resinelli. Chi dalla parte della Rosalba chi dal Pialeral, sono rimasti in montagna finché il rastrellamento è finito. Ma non è stato un rastrellamento di grandi proporzioni. Era un giorno che pioveva, non ci si vedeva da qui a lì, c’era nebbia. Invece dall’altra parte, verso i Piani d’Erna, c’è stato un combattimento. Lì c’erano tanti prigionieri che erano stranieri, fuggiti dal campo di concentramento di Bergamo.
Questi prigionieri sono arrivati ai Piani Resinelli e io li portavo via. Li riceveva “Sterlina” (il Micheli, che aveva la moglie inglese) e li portavo a Olcio a prendere il treno, li nascondevo nei vagoni carri-merce e li portavo a Dorio. Lì c’erano i barcaioli che li portavano a Domaso e da Domaso a Livo e lì le guide che li conducevano in Svizzera. Si pagava 800 lire per ogni prigioniero liberato, ma non sono arrivati tutti. C’erano anche delle guide vigliacche che portavano via ai prigionieri persino i cappotti... cose necessarie per sopravvivere durante l’inverno in montagna.
Ero rimasto da solo, allora ho avvicinato il colonnello Morandi e il colonnello Pini, che era già anziano, ma dal quale un aiuto morale l’ho sempre avuto.
Si è iniziato subito a creare la formazione: quelli che erano chiamati alle armi non andavano. Nella vallata dentro Rongio c’erano alcuni casolari e gruppetti di 4 o 5 stavano nascosti là. Si portava loro da mangiare ma non ci si faceva capire dagli estranei perché erano pochi. Non erano armati, come facevano a resistere?
Si è arrivati a Natale. Una quarantina nascosti nella vallata, il gruppo più numeroso era quello di Somana perché lì abitavo io. Ci siamo organizzati in una vera formazione: quando i giovani venivano chiamati per essere reclutati nell’Esercito fascista non si presentavano, si rifugiavano sulle montagne perché i carabinieri e i fascisti sarebbero venuti a casa a prelevarli come disertori.
Succedeva però che non potendo vendicarsi contro i figli minacciavano i padri, li arrestavano e li mettevano in prigione. Allora abbiamo usato questo sistema: quando venivano chiamati si presentavano, dopodiché sparivano per cui ufficialmente risultavano militari.
Ci occorrevano i rifornimenti di armi, si facevano azioni per impadronirsi delle armi di pattuglie tedesche e fasciste; si cercava di recuperare le armi che erano state nascoste ai Resinelli perché quelli che erano scappati dopo il rastrellamento del 17 ottobre le avevano nascoste. Io ho corso un rischio enorme. Il generale Morandi mi ha detto che un certo ufficiale di Lecco che si era presentato agli alpini di Morbegno e sapeva dove erano nascoste le armi ai Resinelli.
Ho preso il treno a Lierna e sono andato a Morbegno. In caserma ho chiesto di lui. Appena mi ha visto è rimasto stupito, io l’ho preso da parte e gli ho detto: “Tu sai dove sono le armi, io voglio sapere dove sono. Ricordati, però, se vuoi farmi un brutto tiro, che io non sono da solo, in Morbegno ce ne sono 8 o 10 che ti faranno la pelle prima di sera”. L’ufficiale mi ha detto dov’erano le armi. Mentre mi stavo dirigendo verso la stazione ho visto un movimento di pattuglie che mi ha insospettito, allora ho preso la strada della Val Gerola, sono andato fino a Pescegallo e sono sceso da Biandino a Introbio a piedi.
I miei sospetti si sono rivelati infondati perché l’ufficiale non aveva fatto la spia. Rastrellamenti di Olcio, Lierna e Abbadia e Radio Londra
Abbiamo avuto degli attacchi. A maggio c’è stato un piccolo rastrellamento, ci sono stati scontri a Olcio, a Lierna, ad Abbadia. Noi dovevamo agire con intelligenza e ragionare prima di tutto, perché noi i tedeschi li avevamo fuori della porta. Uccidere i tedeschi era una stupidaggine. Ucciso uno di loro, venivano uccise per rappresaglia 10-20-30 persone che le spie segnalavano come collaboratori dei partigiani.
A Laghetto di Colico per la morte di un tedesco hanno bruciato il paese, ne hanno presi 3 o 4 e li hanno fucilati.
Ci rifornivamo di armi e munizioni anche con i lanci che ci venivano comunicati con messaggi diffusi da Radio Londra. Dicevano ad esempio “Caterina non balla” tre volte. Noi dovevamo ricevere il messaggio, la quarta voleva dire: preparatevi che al posto stabilito ci sarà il lancio.
Arrivati sul posto, accendevamo 3 fuochi a triangolo, prendevamo lattine di benzina e i fuochi venivano accesi contemporaneamente subito dopo aver individuato l’aereo che doveva sorvolare, facendo due giri.
Si ricevevano armi, munizioni, viveri. In un primo momento si nascondeva tutto e si spariva perché c’era il pericolo che giungessero i tedeschi o i fascisti, poi si suddivideva.
Brigate nere, tedeschi, torture e fucilazioni
Si è arrivati al 2 agosto del ‘44 ed è successo l’episodio di Peppino e Giovanni. Peppino, mio fratello, è morto sulla strada di Rongio, massacrato e buttato nel fiume. E’ avvenuto per tradimento. Erano scesi per fare rifornimento di viveri nel negozio di Simone Lafranconi. Alcune spie hanno saputo che erano lì e sono andate ad avvertire le brigate nere. Erano in tre e li hanno portati da Rongio a Molina. Sono stati i fascisti a portarli dai tedeschi.
Mio fratello durante il percorso ha tentato di scappare, gli hanno sparato e l’hanno buttato nel fiume lasciandolo in agonia per 24 ore. Gli altri, il Giovanni Poletti e l’Andrea Rompani, li hanno portati al comando tedesco. Giovanni è stato torturato, poi è stato portato al cimitero di San Zeno e fucilato. Andrea Rompani l’hanno tenuto a Como. Volevano deportarlo o fucilarlo, ma con la mediazione di una signora (la “Valchiria”) abbiamo ottenuto la sua libertà in cambio di una sospensione delle nostre azioni per un certo periodo.
Il 26 ottobre i nostri hanno avuto un contatto con due polacchi, i quali hanno promesso che ci avrebbero rifornito di armi e munizioni e si sarebbero uniti a noi. Siamo scesi a Somana, piovigginava, abbiamo attraversato il Meria a Rongio e siamo arrivati in località Moiola. All’ultimo istante, quando i polacchi sono arrivati, ho avuto un presentimento e ho gridato: “Tutti a terra”. Un attimo dopo la bomba è scoppiata.
Morganti, che aveva la cassetta delle munizioni, è saltato in aria. Io ero ferito al braccio, a una gamba e alle spalle… ero una piaga unica. Adamo Gaddi è morto in casa del dottor Stea, Davide Gaddi è morto subito. Io sono stato trovato a mezzanotte. Ero convinto di morire e lo desideravo anche perché pensavo: “Se mi prendono mi fucilano”.
I tedeschi lanciavano razzi. Quando sono arrivati mi hanno dato tre calci nella gamba rotta, poi mi hanno portato via in barella. La mia gamba penzolava dalla barella e l’avevano messa girata al contrario. Io dicevo loro di portarmi al cimitero a fucilarmi, non volevo essere interrogato. Invece mi hanno portato dal dottor Stea, il quale mi ha medicato... In tasca avevo un messaggio che mi era stato consegnato la sera stessa da Giulia Zucchi. Ho fatto capire a Stea che avevo il messaggio del lancio, la moglie ha messo il cotone e la garza che adoperava per disinfettare vicino alla gamba e io, mentre mi lamentavo, ho fatto scivolare il portafogli sotto la garza. Lei ha finto di prendere la garza sporca in cui era avvolto il portafogli per buttarla in pattumiera.
Volevano portarmi all’ospedale di Lecco dove c’era il dottor Pensa, che era un repubblichino. Il dottor Stea sapeva che andare a Lecco significava essere ucciso.
Ha fatto chiamare la Croce rossa di Bellano che però non è arrivata perché quella notte si sparava a Lierna, ad Abbadia, a Regoledo e nessuno voleva muoversi.
Allora hanno chiamato i vigili del fuoco di Bellano e mi hanno caricato sopra la piattaforma. La moglie del dottor Stea mi ha messo addosso una coperta ma i tedeschi me l’hanno strappata di dosso dicendo: “Via! Bandito!”. Ero un bandito, per loro, e non meritavo la coperta.
Ero moribondo ma capivo. Hanno chiamato il prete, don Luigi, ma io ho chiesto alla suora un bicchiere di vino e una sigaretta e il dottor Scuri ha detto a don Luigi: “Don Luis, desmett che te tre via el temp!”. Dopo però sono stato male, deliravo, dicevo cose che non dovevo dire. Chi mi ha salvato è stato un sottotenente che era stato ferito da noi. L’ha detto a mia sorella e mi hanno portato in una stanza privata e sono stato 5 o 6 giorni in coma.
Hanno tentato di fucilarmi, i fascisti. Dall’ospedale ne avevano già prelevati due e li avevano massacrati: uno era stato trascinato a Fiumelatte e fucilato, l’altro è stato fucilato a Introzzo. Io sono stato salvato dai tedeschi, i quali sapendo che ormai la liberazione era vicina speravano di avere clemenza salvandomi la vita.
Quando vi erano i tentativi dei fascisti di prelevarmi veniva avvertito il comando tedesco che si opponeva, dicendo che io ero loro prigioniero. Alla fine il dottor Volterra fece un rapporto favorevole.
Dopo la Liberazione solo un fascista fu fucilato a Mandello. Si giudicavano le azioni condotte contro la collettività. Il comando partigiano si era stabilito nelle scuole di Molina dove prima c’era il comando tedesco. Subito dopo la Liberazione ho ricevuto tante denunce non firmate: parecchie persone per vendette personali denunciavano al-tre come fascisti. Io ho detto che si accettavano solo denunce firmate, pochi si sono presentati e dopo qualche giorno le ho stracciate.
Il patriottismo dei mandellesi
La popolazione di Mandello ha aiutato molto i partigiani, ci ha rifornito di viveri nonostante si vivesse poveramente perché l’agricoltura era povera. Ogni volta che ci venivano consegnati dei viveri, firmavamo una ricevuta… Il dottor Stea e il dottor Volterra ci hanno molto aiutato rischiando la loro vita per andare ad assistere i partigiani feriti. Anche le industrie ci hanno aiutato: la Moto Guzzi, la “Carcano”, Gilardoni…”.
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