Nel1970 la rivista “Giorni” pubblicava un ampio servizio sulle 150 candeline di quell’arteria viabilistica fatta costruire dall’imperatore d’Austria Ferdinando I per fini strategici
di Claudio Redaelli
Era il 1970 e la rivista Giorni pubblicava un ampio servizio, a firma del sottoscritto, sullo Stelvio e sulle 150 candeline della strada fatta costruire dall’imperatore d’Austria Ferdinando I per fini strategici.
Da sempre, verrebbe da dire, una tra le più suggestive strade alpine, ripercorreva (e ripercorre) la storia dell’Europa, dalle guerre d’indipendenza italiana fino alla caduta dell’impero austro-ungarico e alla prima guerra mondiale, con le sue battaglie di trincea.
“Il calendario si è susseguito con frenetica convulsione - scrissi in quell’occasione sulla rivista diretta da Davide Lajolo - portando con sé momenti di tristezza e momenti di speranza”.
Il 4 luglio, poi, al Passo dello Stelvio si incontrarono gli abitanti di tre regioni - la Val Venosta, la Val Monastero e la Valtellina - a testimoniare, con una celebrazione disincantata, che le culture, le tradizioni e le lingue si erano avvicinate e venivano rimesse in discussione.
Ferdinando I, imperatore d’Austria, volle quella strada come detto per fini strategici e politici e certo non pensava, allorché Carlo Donegani, ingegnere eccezionale per quei tempi, costruì il collegamento internazionale, di passare alla storia.
In soli quattro anni, un record anche per i giorni nostri verrebbe da dire, la strada fu portata a compimento e Ferdinando I il 22 agosto 1838 portò onori a questo colosso di ingegneria civile.
Ci vollero peraltro 63 mesi perché la strada dello Stelvio, da Bormio a Spondigna, fosse del tutto ultimata.
“Un periodo di tempo che oggi pare eccezionalmente lungo - scrissi in quel servizio, cui tra l’altro si accompagnò un riconoscimento giornalistico oltremodo gradito - ma che per le condizioni del 1820 rappresentò un vero record. Va notato, infatti, che di quei 63 mesi soltanto 21 furono quelli di lavoro utile, considerati i lunghissimi inverni sulla montagna. Ebbene, rileggendo le cronache di allora, non si può non accostare all’indubbio ingegno dei tecnici che pensarono e disegnarono questo capolavoro di costruzione civile la capacità, la sopportazione alla fatica e alle condizioni ambientali delle migliaia di lavoratori che parteciparono all’opera”.
Per i lavori di costruzione arrivarono a Bormio, chiamati dagli appaltatori, operai da tutto il Nord Italia. Raccontarono i cronisti dell’epoca: “Alla metà di maggio nei dintorni di Agums vi si trovarono da circa 800 lavoratori colà ridotti senza trovare occupazione né magazzino per avere soccorsi… Una parte si sostentò col mendicare”.
Nel giugno 1823 i lavoratori impegnati erano 2.500 ma il 3 luglio circa mille di loro furono licenziati, “scartando così - si leggeva sempre nelle cronache di allora - tutti i cosiddetti balossi e infingardi”.
Con l’annunciarsi della brutta stagione “a poco a poco furono ridotti i lavoratori al numero di 800 persone, indi a 700, puramente maschi perché le donne, a istanza del clero tedesco, la giustizia le fece tutte ritirare dai lavori per evitare la promiscuità”.
E ancora: “La maggior parte dei lavoratori sono muratori, condottieri di calce, sabbia e sassi, legnaiuoli e stradini”.
Oggi la strada dello Stelvio è un itinerario semplicemente spettacolare: 40 tornanti sul versante lombardo, da Bormio, e 48 su quello altoatesino fino a Prato allo Stelvio, in Val Venosta.
Salendo da Bormio, la possibilità di arrivare al giogo di Santa Maria o Passo dell’Umbrail (2.503 metri) che consente l’ingresso in Svizzera, direttamente in Val Monastero. Al vertice il mitico Passo dello Stelvio, con i suoi 2.758 metri il più alto passo automobilistico d’Italia e il secondo in tutta Europa.
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