ENRICO MAGNI
Dire che la sanità è un labirinto, dentro il quale ci si perde, è un modo di esprimersi abbastanza ovvio e non sollecita più nessuno stato di reazione attiva, perché, ormai, si è condannati dalla banale realtà dell’attesa.
Uno aspetta che qualcosa succeda. Si è talmente spossati e sfiniti che anche la rabbia si stempera come la goccia di caffè nel bianco latte. Uno come in un melodramma attende. Il medico di base gli ha prescritto di fare degli esami, di fare una visita dallo specialista. Il paziente, con pazienza, aspetta il suo Godot: attenderà in/vano una risposta rassicurante, personalizzata.
Le persone si avvicinano al tempio della salute disarmate, inermi, convinte di non contare niente, di essere numeri, codici colorati, verdi, rossi, gialli. Aggiungiamo il blu, che è il colore della pazienza, della calma e non solo.
Le persone sanno che dovranno armarsi di pazienza, che dovranno evitare di reagire di fronte a qualsiasi soggetto con una divisa o che si masturbi con il cartellino di riconoscimento; sanno di essere solo un numero stampato che appare sul tabellone.
Fila dopo fila, rimando dopo rimando, attesa dopo attesa, parola dopo parola l’appuntamento fissato scorre sul calendario delle prenotazioni con scadenza inaspettata. Bisogna solo sperare che il malanno sia solo psicosomatico, ipocondriaco, insomma, che sia una fissa psicologica passeggera.
Non sempre le cose vanno così. E se anche fosse una fissa psicosomatica, psichica, la persona paga direttamente e indirettamente le tasse sulla salute, ha diritto di essere ascoltata, valutata, visitata. Ogni mese, sulla busta paga di ogni dipendente, pensionato c’è la tassa sulla salute, a questa si aggiunge il ticket sulla prestazione e sui farmaci. Solo una parte della popolazione è esente dal pagamento indiretto (ticket). Si paga tutto. Niente è regalato.
Nell’arco di questi quarant’anni, dalla riforma sanitaria del 1978, che ha dato una svolta al vecchio sistema mutualistico, le mini riforme che ci sono state, diverse per ogni singola regione, non sempre sono state migliorative.
Una cosa è certa. Oggi, la persona vive la sanità, per quanto riguarda l’aspetto organizzativo e gestionale, come se fosse in una condizione di sudditanza, d’impotenza. Si fida delle professionalità e delle competenze sanitarie, ma sente lontano il gestore, l’organizzazione.
Basta inoltrarsi nella hall dell’ospedale di Lecco, guardare i volti delle persone; ascoltare la passività ingombrante di essere seduti su quelle panche; il silenzio della fila dopo essere stati al totem per il biglietto, per prendere il numero, il codice come se si fosse al supermercato, per percepire sulla propria pelle, il disagio, la stanchezza.
Alla bruttezza dell’attesa si aggiunge anche la mancata qualità dell’ambiente. Sono passati 18 anni dall’apertura dell’ospedale A. Manzoni e si avvertono una serie di deficienze. I servizi igienici sono allo sfascio, la hall, che era l’unica cosa innovativa, da un punto di vista architettonico, è stata ridotta a un bazar con quel baraccone all’entrata. Le pareti da qualche tempo non sono ritinte; l’accesso è mal tenuto, in estate l’erba cresce a dismisura; il Pronto Soccorso, per una serie di fattori, come la chiusura di Ps di Oggiono, Bellano, è inadatto a rispondere ai bisogni di accoglienza e di operatività. Non ci sono luoghi, spazi di confort all’interno.
Al posto di un’articolata segnaletica elettronica prevalgono fogli incollati, appesi sulle porte, sulle pareti. La sensazione è di vivere in un ambiente nuovo (18 anni) maltenuto e ormai vecchio. Non c’è una gestione attenta all’accoglienza, si affida il tutto al volontariato: ben venga, ma non basta. Non è solo una questione di pianta organica, come giustamente sostengono i sindacati, o, una questione di finanziamenti, come ripetono i transitori vertici, i manager, è una questione di stile, di ambiente, di estetica al benessere. L’ospedale è come una stazione senza identità. Infatti, anche i treni sbuffano.
Nessun commento:
Posta un commento