Nel momento in cui il lavoro sarà (quasi) completamente delegato alle macchine, cosa sarà dell’uomo e dei suoi ruoli? Una civiltà che permette di coltivare le proprie attitudini senza un obbligo lavorativo, può essere la nuova identità di questo secolo, con un salto nella qualità dell’esistenza e nelle relazioni?
In questo passaggio di millennio, le nostre esistenze stanno cambiando in modo rapido: se le prospettive di vita media sono in aumento costante e la popolazione del globo passerà da un miliardo e mezzo di persone nel 1900 a dieci miliardi nel 2050, risulta chiaro che il rapporto tra generazioni sta cambiando profondamente, mentre il differenziale di uguaglianza sta affondando, soprattutto, i ceti medi.
Un accesso universale alla conoscenza, Internet, Blockchain, DNA sono, forse, elementi di forte impatto nelle nostre vite, e in grado di avvicinare l’uomo a se stesso. L’ipotesi di Zanardi è che sia in atto un cambiamento che potrebbe diventare la prima fase di un nuovo livello di civiltà. Il Novecento è stato un secolo monstre, pieno di figli che hanno visto raddoppiare la loro aspettativa di vita media, aumentando benessere individuale e collettivo in forma esponenziale; il secolo più performante della storia ha infatti portato fiducia, nonostante due terribili guerre che hanno coinvolto la vita di milioni di persone. Le trasformazioni in atto ci fanno pensare che, nel prossimo millennio, l’identità della persona non sarà più fondata sul lavoro (status e perimetro sociale del secolo scorso) e che sarà necessario individuare un’ipotesi di coesistenza tra una nuova maggioranza con prospettive “non lavorative” e chi avrà un lavoro retribuito e chi, infine, non riuscirà ad avere alcun accesso al lavoro. È quindi necessaria una ricerca globale di risorse da trasformare in reddito per sempre per chi non avrà più (o mai) la possibilità di lavoro.
L’energia del pianeta è oggi data dal sapere: economia, lavoro e tempo liberato dal lavoro gravitano intorno ai contenuti. Siamo diventati studenti a vita, a partire dagli ambiti scolastici alle specializzazioni e agli aggiornamenti necessari allo svolgimento di qualsiasi attività.
Formazione e lavoro sono punti di riferimento che stanno modificando i propri orizzonti. Contemporaneamente questa enorme quantità di sapere – sempre più democraticamente a disposizione di tutti – si sta assestando in un periodo di “decantazione” che permette di includere i processi nelle varie conoscenze, che si arricchiscono ogni giorno, e che si connettono ad altri saperi, fruibili da più parti.
La conoscenza si è trasformata progressivamente in un “capitale democratico” costituito dalla capacità di fornire soluzioni con un livello di flessibilità impensabile dentro i rigidi schemi della produzione progettuale e industriale. Il rapporto tra saperi e mondo produttivo di beni e servizi è, quindi, nodale: diventa infatti necessario un rapporto che consenta la convivenza, in cui ragione e visione si integrano in funzione di una sostenibilità sociale – unica globalizzazione veramente indispensabile. La cultura è oggi lo strumento più potente che raggiunge la più ampia fascia di popolazione del pianeta, in cui confluiscono formazione e didattica, ricerca e innovazione, e tante altre nuove opportunità di ideazione e produzione, anche solo immateriale.
In questa fase di trasformazione, nascono – e sono necessari - anche “nuovi alfabeti”, che partono dai bisogni elementari e dalla costruzione di un mondo in cui ciascuno può vedere rappresentato il proprio pensiero e la propria sensibilità.Riciclare, riutilizzare, rigenerare, riprogettare sono tutti linguaggi e approcci che servono per ridare forma e vita a contenuti e contenitori di chi è venuto prima di noi.
Anche la città, intesa come conformazione urbana, muta i suoi confini storici: da tempo si parla di “smart city”, spesso svuotandone il significato; in realtà ci sono nuovi modelli a livello territoriale che fanno saltare le classificazioni e categorizzazioni correnti, dando via a forme e modelli originali veicolati, quasi sempre, dal mondo digitale. Esistono abitazioni in cui poter anche lavorare, luoghi di condivisione di attività imprenditoriali individuali, senza passare per grandi organizzazioni aziendali, e una distribuzione delle merci radicalmente cambiata.
La civitas nel suo complesso di schemi su cui si fondano modelli che innovano la vita urbana – scrive Zanardi – ha preso il sopravvento sull’urbs, la struttura materiale che coincide con l’edificato. E questa nuova civitas è basata su relazioni non formali, che costituiscono una parte dell’habitat in cui stanno nascendo nuovi lavori, sempre più legati a una progettazione cui solo in pochi casi segue una vera produzione (diretta o indiretta).
In questa nuova prospettiva, anche il ruolo del lavoro cambia.
Il lavoro è “stanco” come identità sociale e come collante della società postindustriale: non è più riconosciuto come strumento di dignità e libertà, perché il gap tra domanda e offerta è sempre più alto e questo fa sì che la necessità di lavorare abbassi ogni tipo di tutela e crei diversità di trattamento dei cittadini, spesso anche all’interno dello stesso Paese.
D’altro canto, aumenta la competizione con le macchine: la loro capacità di apprendere nutrendosi di dati in tempo reale toglie da molte attività la necessità dell’intervento umano. E aumentano le piattaforme globali quali Uber, AirBnb, Amazon: sono nomi rappresentativi di una trasformazione profonda del modo in cui beni e servizi vengono progettati prodotti, distribuiti, condivisi. Anche queste trasformazioni creano ricadute globali: il calo del numero dei lavoratori (sapendo che quelli che rimangono sono sempre meno tutelati), l’importanza della reputazione del soggetto o del servizio – frutto dell’opinione e condivisione altrui -, e l’assurgere a un ruolo decisamente monopolistico delle piattaforme. Così, anche il dibattito tra lavoro e crescita – spesso chiuso tra istanze politiche o contrattuali – risulta inadeguato se non è accompagnato da prospettive concrete e alternative.
Risulta quindi chiaro per Zanardi un ultimo passo: una migrazione delle tutele dal lavoro al cittadino, dagli istituti di credito alle organizzazioni non profit, dai meccanismi competitivi a quelli di condivisione. E ancora più necessario appare il passaggio di tutela verso beni che, nel Novecento, apparivano res nullius: l’acqua, l’aria o quel saper fare che non si brevetta ma è figlio di un habitat territoriale ed esperienziale. Se, dunque, la divisione del lavoro è stata l’enzima più importante del sistema produttivo, la condivisione del pianeta e la sua manutenzione potrebbero diventare il nuovo lavoro universale del terzo millennio. Quello di un contratto sociale che preveda un reddito universale, pilastro di tante ipotesi di condivisione, è un tema oggi maturo, così come è matura l’inclusione di una componente agricola e forestale, anche e soprattutto dentro le città, motori di ogni trasformazione.
In realtà, il fatto di ricevere un reddito senza alcuna condizione non è nuovo: in Giappone, in Canada, nell’Europa dell’Est e anche nella nostra Italia è stato sperimentato, in modo spesso inconsapevole (basti pensare ai tanti lavori che hanno più una funzione di calmiere sociale che non un’effettiva utilità). Certo, alcune domande sono ovvie e, al contempo, impegnative: dove prendere le risorse? Che tipo di economia si può immaginare in questo Millennio? Quali lavori saranno ancora necessari? Possiamo, e forse dobbiamo, cominciare a parlare di una democrazia che consenta una convivenza meno diseguale.
Nella civiltà del dopo lavoro che inizia ora, le possibilità di una qualità di esistenza fornite da un reddito universale e dall’opportunità di dispiegare le proprie attitudini, senza l’assillo di un obbligo lavorativo, potrebbero dare un’altra identità a questo nuovo secolo: sarebbe bello giocarsi questa partita con la consapevolezza che il finale di quella precedente è già stato scritto, ma forse può essere cambiato.
Il superamento sereno dell’era del lavoro potrebbe davvero diventare la prima fase di un nuovo livello di civiltà basata sulla conoscenza come collante sociale universale.
Nicola Zanardi, imprenditore e divulgatore. Consulente su temi di innovazione, sostenibilità, tecnologie, ha scritto per il “Corriere della Sera”, è stato condirettore di “Equilibri”, rivista per lo sviluppo sostenibile del Mulino e Fondazione Eni Enrico Mattei. Dal 2013 è professore di "Comunicazione e Innovazione Digitale" all’Università Statale di Milano Bicocca. Tra i suoi libri, 1945-1964 Brevetti del design Italiano e Italian Applications, progetti di ricerca applicati delle università italiane. www.hublab.it
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