Dopo gli anni della caduta dal 2008 al 2013, a partire dal 2014 è iniziata la rimonta. E il 2017 ha segnato, per il secondo anno, consecutivo la crescita del fatturato. Parliamo della nautica da diporto italiana. Un miracolo? Nessun miracolo, solo la fortissima tenacia e la grandissima qualità di un sistema diffuso di artigiani e piccole imprese. È questo il vero motore che sta spingendo la nostra nautica fuori dalla crisi. A rilevarlo il Rapporto di ricerca di CNA Nautica “Dinamiche e prospettive di mercato della filiera nautica del diporto”, giunto quest’anno alla sesta edizione, presentato a Viareggio.
Tra gennaio 2014 e gennaio 2018 la produzione di imbarcazioni da diporto nel nostro Paese è aumentata del 33,1%. Segnando una performance migliore dell’andamento medio del settore manifatturiero. E portando il fatturato complessivo del comparto a quattro miliardi di euro, poco sotto il livello del 2009.
Sta riemergendo a grandi tappe la storica eccellenza produttiva che la crisi aveva azzannato dolorosamente, complice politiche penalizzanti. La più devastante di tutti: la tassa di possesso sulle imbarcazioni da diporto. Una follia che ha messo in ginocchio il mercato nazionale e allontanato dagli approdi italiani un gran numero di diportisti, spingendoli verso gli scali dei Paesi limitrofi, dove questa imposizione non esisteva. Una imposizione assurda che in seguito è stata abolita. Ma ha inferto danni gravissimi le cui conseguenze si soffrono ancora oggi. Anche nel 2016 la flotta nautica italiana immatricolata ha registrato un calo.
Una filiera complessa
Oltre a scontare i danni provocati da miopia politica e invidia sociale, che trasformano un gommone in un oggetto di gran lusso e il suo proprietario in un evasore fiscale incallito, la nautica da diporto paga, purtroppo, anche la sottovalutazione di una contabilità statistica a maglie ridotte. Quando si pesa il valore economico (e sociale, in termini di occupazione e ricchezza diffusa) del comparto si tiene conto solo dell’attività strettamente cantieristica. Vale a dire della costruzione e della riparazione di imbarcazioni. Senza valutare tutte le altre strutture produttive e di servizio funzionali alla nautica da diporto. Un insieme molto ampio di prodotti, che spazia dal settore tessile (vele e cime) ai mobili (arredi interni), dalla produzione e installazione di macchine e apparecchiature (impianti) ai prodotti in metallo (eliche, ancore), dalla meccanica (motori) alla strumentazione (bussole, radar, Gps, software). Connessa alla nautica, inoltre, è un’ampia gamma di servizi turistici e portuali, che va dalle scuole nautiche al trasporto delle imbarcazioni, dal rimessaggio al refit. Un combinato disposto che vale il 44% del giro d’affari (contro il 56% della produzione) e che rende la nautica molto più rilevante di quanto emerga dalle statistiche ufficiali, che non ne fanno percepire il reale valore economico e occupazionale e quindi non permettono di misurarne e apprezzarne la portata.
Il ruolo dei “piccoli”
La piccola dimensione delle imprese rappresenta il tratto caratteristico del settore nautico italiano. Dai dati Istat aggiornati al 2015 risulta che le imprese con meno di 50 addetti sono il 97,9% della totalità. E contribuiscono al 46,8% dell’occupazione, al 21,8% del fatturato e al 35,1% del valore aggiunto.
Negli anni della crisi la cosiddetta “piccola nautica” (le imprese che fatturano fino a 5,1 milioni di euro) è stata colpita, però, da un autentico tsunami economico. Tra il 2009 e il 2014 sono state spazzate via il 13,9% delle imprese con il 23,9% di addetti, un dato peggiore del sistema manifatturiero complessivo, che ha perso il 9,7% delle imprese e il 12,2% dei dipendenti. Una selezione darwiniana che ha riguardato, in particolare, le imprese meno dotate patrimonialmente (le società di persone sono calate del 25,9%, le ditte individuali del 16,9%) lasciando in sostanza intatto il numero di società di capitali, diminuite del 2,9%.
Come irrobustire la ripresa
Il recupero del settore nautico – bisogna sottolinearlo – è frutto delle capacità imprenditoriali italiane. Una battaglia condotta in solitudine, senza aiuti e senza sostegni economici. Ma in difetto di una politica di sistema è difficile che il comparto possa esprimere tutte le sue potenzialità. Anzi, rischia di pagare nuovamente pegno in caso di frenata dell’economia. CNA Nautica chiede prima di tutto una politica fiscale meno penalizzante. Sottolinea l’importanza di politiche di sostegno all’innovazione, alla ricerca e allo sviluppo per porre micro e piccole imprese in condizioni di maggiore competitività nella sfida internazionale, anche per evitare la mono-committenza che mette a repentaglio la sopravvivenza di tante piccole imprese in caso di crisi di un grande produttore. Sul fronte dei servizi, è necessario cercare di intercettare e “catturare” la clientela straniera. CNA Nautica propone di snellire la normativa e di semplificare i regimi amministrativi e i controlli (prendendo esempio dai Paesi concorrenti), a esempio diffondendo, per la nautica da diporto, la prassi del Bollino Blu per evitare la duplicazione degli accertamenti. Va, inoltre, potenziata la rete infrastrutturale di porti e approdi turistici e se ne deve migliorare la qualità, l’ampiezza, la profondità dei fondali. L’Italia incide in termini mondiali per l’1,7% nella ripartizione delle marine e per l’8% dei posti barca e ormeggi. Dispone di un porto o di un approdo turistico ogni 14,2 chilometri, mentre la Francia di uno ogni otto e la Spagna di uno ogni 6,4. Un gap che va colmato.
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